"METODO", N. 18/2002

Daniele Capanelli
(Ricercatore di diritto romano e storia del diritto
presso il Dipartimento di diritto privato
U. Natoli dell’Università di Pisa)

L’EURO E L’“UNIONE EUROPEA”: UN APPROCCIO CRITICO

Accompagnata da una retorica roboante e, sotto certi profili, persino grottesca (non altrimenti è dato qualificare frasi come “Rendo grazie a Dio” e, addirittura! “L’Italia è risorta!” rispettivamente pronunciate da Romano Prodi ed Oscar Luigi Scalfaro) l’entrata in scena dell’euro (gennaio ’99)[1] non è bastata, di per sé, a convincere milioni di europei circa l’opportunità dell’adozione di una moneta comune tra l’altro deprezzatasi, nel triennio successivo, del 15-20% rispetto al dollaro, con buona pace delle previsioni ultra-ottimiste di alti papaveri della Deutsche Bank, stando ai quali già nel 2001 per comprare un euro sarebbero stati necessari 1,10 dollari[2]. Non solo: è diffusa la percezione che la moneta unica, in quanto tale, non può favorire quel processo d’unità politica del continente, rimasto fin qui una chimera.

Dietro l’euro, in effetti, non vi sono né una realtà economica coesa, né un’identità culturale (l’assenza determinante di una lingua comune da sola toglie fondamento a definizioni come “Unione Europea” o, peggio ancora, “Stati Uniti d’Europa”) né una politica estera (a Maastricht si tentò d’istituirla per decreto, ma pensò la tragedia balcanica a spazzarla via)[3] né, infine, una potenza militare appena degna di questo nome, oltre le vuote chiacchiere e qualche modesta velleità (non condivisa, peraltro, dal Regno Unito, tradizionalmente longa manus degli USA al di qua dell’Oceano)[4]. Per colmo di sventura, l’introduzione definitiva dell’euro (1 gennaio 2002) ha generato una spirale inflativa allarmante che in Italia, fin qui, ha toccato punte comprese tra il 10% e il 40%, a dispetto delle balle raccontate in TV.

Che non tutto stia filando per il verso giusto nell’“Unione” le stesse autorità hanno dovuto ammetterlo, né avrebbero potuto comportarsi in altro modo salvo negare l’evidenza. Così, intervistato dal “Giornale”, il presidente della Commissione europea Romano Prodi, dopo essersela presa ritualmente con i “ripensamenti disfattisti”, non ha potuto evitare ammissioni significative: “abbiamo perso il filo della direzione da seguire… i protocolli cavillosi, le formule complicate sempre meno riescono a nascondere le divergenze… (i nostri comportamenti) per quasi una generazione (hanno diffuso) l’ombra del dubbio circa la fondatezza delle nostre scelte…[5]. Il che, evidentemente, non è poco…

Tuttavia, le perplessità che affiorano in alto loco non sembrano sufficienti a correggere la rotta discutibile lungo la quale l’eurocrazia procede ormai quasi per inerzia.

Tra sprechi immani (v. il caso del “Palazzo di Beyrlemont” a Bruxelles, costato 1000 miliardi e mai utilizzato)[6] e cospicue prebende che, col tempo, per molti politici trombati o comunque ridimensionati in patria sono divenuti qualcosa di più di un semplice approdo consolatorio (non per nulla, in media ogni parlamentare europeo, per accennare solo a costoro, intasca mensilmente sugli 11 milioni di lire, più 18 milioni per spese di segreteria, più altri 6 a titolo di “rimborso spese d’ufficio non documentate”, più diarie abbondanti che, in caso di trasferta, sfiorano il mezzo milione più, last but not least, generosi buoni-acquisto da usare per liquori, sigarette e benzina…)[7] le istituzioni comunitarie si sono rivelate, soprattutto, una comoda greppia cui attingere senza remore. In tali condizioni di privilegio, i beneficiari dovrebbero poter elaborare politiche di alto profilo, giacché appunto per questo sono profumatamente pagati. Al contrario, passano buona parte del tempo a litigare su quasi tutto, quando non a occuparsi di stupidaggini, come vedremo.

I conflitti riguardano e la riforma degli ordinamenti e le politiche agricole, pensate fin dalle origini per favorire le aziende nord-europee e alcuni paesi del Terzo Mondo in particolare, a scapito delle produzioni mediterranee[8] (del che fu chiaro esempio la per noi tristissima vicenda delle “quote latte”)[9] ed il ricorso ai c.d. “Fondi di Coesione”. Non c’è accordo neppure sull’apporto di ciascuno al bilancio comune, né sui meccanismi laboriosi da prevedere affinché l’“Unione” funzioni, se questo sarà mai possibile, dopo che il disegno scriteriato di ampliarla fino a 27 paesi avrà avuto compimento. In proposito, non sarà fuor di luogo sottolineare che il reddito medio complessivo dei 12 stati candidatisi per ora ad entrare in Europa, come si dice, è inferiore nientemeno che del 75% a quello dei membri attuali![10]

Altra materia di conflitto concerne l’Accordo di Schengen (1995), sulla libera circolazione dei cittadini entro le frontiere dell’“Unione”. Ebbene, sei stati su quindici non l’hanno sottoscritto, cominciando dal regno Unito, e dei nove restanti c’è chi l’applica a singhiozzo, secondo le convenienze (è il caso di Belgio e Lussemburgo, per esempio)[11].

Infine, ma la lista dei dissensi sarebbe ancora lunga, manca un approccio comune al c.d. “mandato di cattura europeo” la cui applicazione, se non disciplinata a dovere, potrebbe limitare diritti e libertà.

Quanto al resto, le istituzioni europee prediligono dare sfogo, con allarmante frequenza, a manie omologatrici tese a eliminare, nel tempo, ogni peculiarità.

Prima di occuparcene dettagliatamente, e ne vale la pena purtroppo!, non si potrà non rilevare, anzitutto, che l’“Unione” opera sulla base di una “finzione democratica”, per così dire, caratterizzata fra l’altro dal paradosso che alcuni dei suoi principali organismi (intendiamo alludere al Consiglio dei Ministri ed alla Commissione Europea) non sono elettivi, neppure indirettamente; l’unico che lo sarebbe, invece, vale a dire il Parlamento,rinnovato ogni quinquennio, ha le funzioni solo consultive, ed i suoi pareri, per di più, non sono vincolanti[12].

In realtà, un certo autoritarismo di fondo trovò conferma, in tempi non lontani, nell’arrogante rifiuto del predecessore di Prodi, Jacques Santer, di rassegnare le dimissioni, pur essendo stato sfiduciato dal Parlamento, per nepotismo e frodi (sulla base di quanto abbiamo detto, le dimissioni non sarebbero state obbligatorie, ma escluderle comunque, nelle circostanze accennate, fu un gesto grave). In ogni modo, alla fine Santer dovette togliere il disturbo; tuttavia, la vicenda di cui era stato protagonista negativo, servì a mandare un segnale inquietante[13]. Lo stesso dicasi della vergognosa e meschina campagna diffamatoria scatenata da vari capi di stato e di governo dell’“Unione”, italiani compresi, contro Jörg Haider e il partito liberal-nazionale austriaco, colpevoli di godere la fiducia di un terzo dell’elettorato, come provarono gli esiti degli ultimi, limpidi comizi legislativi (autunno ’99). Le stesse riserve hanno palesato politici belgi e francesi, anche con deprecabili cadute di stile, verso il governo Berlusconi, reo di avere con sé la maggioranza del corpo elettorale. Per l’eurocrazia, insomma, i sistemi democratici vanno bene solo quando a prevalere sono personaggi e schieramenti graditi a Bruxelles. In caso contrario, le regole del parlamentarismo, anche se formalmente rispettate, cessano di avere valore. Altro che Le Pen, Haider e compagnia: nell’“Unione”, e non altrove, allignano i veri nemici delle libertà![14] D’altronde, non può non sorprendere (a questo punto, però, neanche troppo) il fatto che agli europei Maastricht abbia proibito per sempre (!!) il ricorso a strumenti di democrazia diretta, cominciando dai referendum. Gli eurocrati devono aver pensato che è rischioso dare la parola ai popoli, quanto meno in certi casi. Evitandolo del tutto, ci si mette al riparo da possibili, sgradite sorprese[15].

Scrivevamo più sopra che tra le occupazioni preferite del “Parlamento europeo” c’è il tentativo d’imporre a 350 milioni di persone regole uniformi cui attenersi, nei più diversi ambiti. Il che avviene a getto continuo, mediante Direttive e Regolamenti che, suggeriti dai parlamentari, sono poi elaborati nella Commissione e calati quindi dall’alto su noi tutti.

Ora, premesso che almeno sotto questo aspetto gli eletti del popolo lavorano davvero, tanto che nel solo biennio 1998-’99 hanno deliberato 3642 provvedimenti, nel contempo abrogandone 2330 (per un totale di 5972, ossia una ogni 4,18 minuti, beninteso tolti ferie, feste comandate ed altre interruzioni), può essere istruttivo notare a quali materie siano dedicati confronti spesso accesi e discussioni sovente interminabili.

Così, il Regolamento n° 2898/95 vieta lo smercio nell’UE di banane “lunghe meno di 14 centimetri e dal diametro inferiore almeno a 27 millimetri”. Quello n°963/98 proibisce, ancora, la circolazione e vendita, entro i confini dell’“Unione” di carciofi dal gambo “lungo più di 10 cm” salvo, naturalmente, siano acquistati in “bouquet”…

Quanto al Regolamento n° 2067/96, dichiara illecito vendere capponi ingrassati per 77 giorni, in luogo dei 50 abituali, mentre la Direttiva n° 548 del 28 gennaio ’89 si avventura nella definizione di “camicia da notte”, avviando sull’insidioso tema un dibattito decennale (nel quale è intervenuta la stessa Corte Europea di Giustizia) con particolare riguardo alle caratteristiche dell’indumento e (dettaglio certo da non trascurare) al fatto se convenga o meno indossarlo anche di giorno. Nel giubilo dei cittadini, che possiamo immaginare, la tesi affermativa finalmente è prevalsa. Tornando alla gastronomia, il Regolamento n° 2377 del 1999 delinea le caratteristiche dell’asparago perfetto (sarebbe quello il cui “taglio di base” è “il più perpendicolare possibile” [sic!] all’asse longitudinale”) fermo restando, logicamente, che l’asparago definito “extra” non dovrà mai essere più corto di 12 cm. Se poi la stessa verdura sarà venduta in mazzi, occorrerà fare attenzione dato che, pena non si sa bene cosa, “la differenza in lunghezza tra l’asparago più grosso e quello più piccolo non dovrà superare gli 8 mm[16]. In tema di lupini, poi, l’ennesima, dotta Direttiva chiama in causa addirittura La Palisse (“i lupini dolci sono quelli non amari”) per poi sforzarsi di chiarire al cólto e all’inclita come equalmente un complicatissimo processo chimico aiuti a distinguere, in definitiva, le due categorie, cosa della massima importanza si capisce, giacché la maligna “Unione” nei suoi disegni imperscrutabili, finanzia chi si dedica a produrre lupini dolci…[17]

Infine, ma ci sarebbe molto altro da commentare, non essendovi limite all’umana stupidità, la Direttiva n° 532 del febbraio 2000 avrebbe preteso d’imporre alle piccole e medie aziende panificatrici italiane una riduzione drastica dei 250 tipi di pane sin qui prodotti. Se si riuscisse a dar seguito alla richiesta, che ovviamente ha suscitato un vespaio, verrebbe colpito duramente un giro d’affari di 10.000 miliardi di lire, per tacere d’altro[18]. In realtà, non è minacciata solo la michetta: anche i nostri vini pregiati e ben 29 tipi di formaggio rischiano di doversi far da parte lasciando il posto, auspice Bruxelles, a volgari imitazioni d’oltrefrontiera. Il rischio che ciò che accada tanto più è forte quanto maggiore è l’accanimento con cui i burocrati si ingegnano di dettar legge a governi che, fatte salve pochissime eccezioni, ne accettano supinamente le volontà. D’altro canto, se l’“Unione Europea”, oltre ad essere un’entità politica artificiosa, è un impasto di presunzione, illiberalità e follie, il proposito di tutto omologare a criteri estranei alla realtà, appunto perché studiati solo a tavolino, troverà sempre meno ostacoli lungo il cammino nella misura in cui si continueranno a escludere dall’elaborazione del progetto comune (o presunto tale), centinaia di milioni di persone.

Se questo è vero, non sorprende che un terzo almeno della popolazione continentale non abbia digerito le pretese eurocratiche, come provano gli esiti di referendum e votazioni parlamentari e locali tenutesi nell’ultimo decennio in Svezia, Danimarca, Austria, Francia, Irlanda, Olanda, Belgio e Portogallo. È certo che la burocrazia dell’UE teme il giudizio degli elettori che, salvo i casi lodevoli di Svezia, Danimarca e Irlanda, mai sono stati chiamati a dire la loro su questioni specifiche tanto delicate ed essenziali come il ricorso alla moneta unica o, a suo tempo, l’entrata nella CEE. Quando non è stato possibile evitare la pronuncia dei cittadini, se questa ha manifestato disagio nei confronti dei modi seguiti fino ad oggi per “costruire l’Europa”, allora si è cercato d’ignorarla, quando non di esorcizzarla con procedure biasimevoli. Ciò è avvenuto per es. in occasione del voto contrario degli irlandesi in tema di apertura ad Est (aprile 2001), circa il quale osservava opportunamente Marcello Foa: “Il trattato di Nizza ha semplicemente dilatato le attuali strutture comunitarie, che funzionano male a 15 e che, verosimilmente, non funzioneranno affatto quando i paesi membri saranno 27… ma evidentemente i cittadini europei non si sono lasciati abbindolare” (si allude qui a votazioni svoltesi anche nei paesi scandinavi tra il 1992 e il 2000, N.d.A.)[19].

A fronte di ciò, appare stravagante, come minimo, l’affermazione di Carlo Azeglio Ciampi, secondo il quale l’uso dell’euro da parte di cittadini di 11 stati è, di per sé, un plebiscito a favore della nuova moneta. Con Ida Magli ci chiediamo: che altra scelta avremmo avuto…?[20]

La paura nei confronti dell’opinione pubblica, a sua volta preoccupata da episodi come l’approvazione sbrigativa di riforme costituzionali tese a sottomettere i singoli paesi ad un potere straniero (trattasi delle ben note “abdicazioni di sovranità”)[21], porta anche a censurare le critiche, accorpate nella definizione di “euroscetticismo”, altrettanto spregiativa quanto vaga.

Sta di fatto che non è colpa loro se milioni di persone (140, stando a un sondaggio abbastanza recente)[22], con l’eccezione della Gran Bretagna (dove l’allora Ministro degli Esteri del governo conservatore, Malcolm Rifkind, nel 1997 pubblicò una sorta di manifesto dell’“euroscetticismo”, tra l’altro difendendo con vigore l’idea dell’“Unione” come “associazione di stati” sovrani)[23], non trovano nei partiti tradizionali, conformisti a oltranza, il canale appropriato ad esprimere timori e disagio. Di qui la fortuna, forse effimera ma attualmente indiscutibile, di un populismo pur criticabile per certi versi, che ha avuto ed ha in figure quali Haider, Le Pen, Bossi, De Winter e Pim Fortuyn, gli esponenti di maggior spicco[24].

Posti di fronte al fenomeno, comunque da non sottovalutare, anziché ricorrere scandalizzati agli anatemi, i politici di casa nostra e d’Oltralpe farebbero bene a chiedersi se certe derive estremiste e demagogiche non siano anche frutto di forzature artificiose imposte da un potere lontano[25] nel nome di idee tanto più dannose in quanto, a ben vedere, irrealizzabili[26].



[1] M. GIORDANO, Europalle, ne “Il Borghese”, febbraio ’99.

[2] Cfr. I. MAGLI, Un’Unione contraria ai valori dei popoli, ne “il Giornale”, 18 giugno 2001. In tema di rapporto effettivo tra euro e dollaro, ha avuto gioco facile il titolare della Federal Reserve, Alan Greenspan, nel dichiarare, tempo addietro, di “non vedere assolutamente come in futuro l’euro possa sostituire il dollaro come moneta di scambio dominante a livello mondiale“ (ne “Il Tirreno”, 1 dicembre 2001). È da porre nel giusto rilievo, ancora, la circostanza che l’euro non ha lo stesso valore in ciascuno dei paesi che lo utilizzano (incredibile, ma vero…!).

[3] V., in proposito, il Tit. V, articolo J, del relativo Trattato (agosto ’92) e i quattro paragrafi seguenti (in I. MAGLI, Contro l’Europa, Bompiani, Milano, 1997, p. 168).

[4] Su questo tema, che ha molte implicazioni, può essere utile consultare, tra gli altri, R. NEWBURY (Gli inglesi in dubbio se sia meglio essere il 15° stato dell’Europa unita, oppure il 51° degli USA, ne “Il Foglio”, 11 giugno 1996) e P. ROMANI, Il migliore amico degli americani, in “Famiglia Cristiana”, n° 41, 14 ottobre 2001.

[5] V. L’UE del dopo Nizza va rifondata, Milano, 14 febbraio 2001.

[6] Cfr. M. GIORDANO, L’Unione fa la truffa, Mondadori, Milano, 2001, pp. 9-11.

[7] V. “il Giornale”, Milano, 4 e 20 dicembre 1998.

[8] F. FUBINI - G. GIOVANNELLI, Riso amaro, l’UE apre all’Asia, ne “il Giornale”, 21 settembre 2000.

[9] Sulla controversa questione v. per tutti A. CRISTIANI – P.F. PENSOSI, Chiarito il mistero: chi munge le vacche sono i sindacati, ne “L’Uomo Qualunque”, Milano, 27 dicembre 1997.

[10] L’informazione viene da Romano Prodi, dopodiché riesce arduo intendere come dar vita a un carrozzone del genere possa rappresentare, così afferma il Presidente della Commissione Europea, “un guadagno netto per l’Italia” (v. F. PAPITTO, Il presidente UE apre all’Est: mai più un muro di Berlino, ne “La Repubblica”, 22 maggio 2001).

[11] F. FUBINI, Immigrati, il Belgio richiude le frontiere, ne “il Giornale”, 9 gennaio 2000.

[12] Su questo punto, il Trattato di Maastricht è categorico, tanto che il concetto è ribadito in 8 articoli dei 60 complessivi [Parte II, Articoli 8a e 8b (1 e 2); Tit. III, Capo I, art. 48; art 99; Titolo XIV, articolo 130b; Titolo XV, articoli 130° e 1304; Titolo VII, articolo 0]. Si v.a. M. GIORDANO, cit., pp. 11 ss.

[13] G. BAGET BOZZO, Il governo europeo affonda sotto il peso delle liti fra democristiani e socialisti, ne “il Giornale”, 12 gennaio 1999.

[14] Tra i molti articoli sull’argomento, ne ricordiamo, in particolare, uno di G.L. LUZI (Il Belgio: Bossi è fascista. Il Polo: intervenga Amato), pubblicato da”Repubblica” il 28 febbraio 2001.

[15] P. GRANZOTTO – G.B. GUERRI, Europa, il gigante in crisi d’identità, ne “il Giornale”, 18 febbraio 2001.

[16] M. LELLA, Fuori legge gli asparagi corti, curvi e verdini, ne “il Giornale”, 17 novembre 1999.

[17] Cfr. M. GIORDANO, L’Unione…, cit., p. 47. Per ulteriori amenità, si v. le pp. 37 ss.

[18] B. GUALAZZINI, L’Europa mette le mani in pasta: niente pane prima di mezzanotte, ne “il Giornale”, 11 agosto 2000.

[19] V. Uno schiaffo salutare, ne “il Giornale”, 9 giugno 2001.

[20] La domanda ricorre nel quotidiano elettronico http://www.italianiliberi.it cui l’antropologa offre un contributo determinante.

[21] È il caso dell’art. 117 della nostra Costituzione, modificato in tutta fretta dal governo Amato quattordici mesi orsono. Parlare in proposito, come ha fatto Ciampi, di “sovranità condivisa” tra “Unione Europea” e singoli paesi è, a dir poco, errato.

[22] Da un’inchiesta del “País” di Madrid, realizzata quattro anni orsono, emerse che il 40 % degli abitanti di 11 paesi dell’“Unione” non aveva alcuna fiducia nelle istituzioni comunitarie (Cfr. “el País internacional”, 17-23 novembre 1998).

[23] Si v. La hora del debate público sobre el futuro de Europa, ne “el País”, Madrid, 10 febbraio 1997. Qualche tempo dopo, in Germania, un libro dal titolo esplicito, Die euro-illusion, svilupperà le tesi di Rifkind, divenendo in breve un best-seller (2001).

[24] In un interessante articolo di qualche tempo fa, Marcello Veneziani coniò la definizione di “destra selvatica” cioè, per riassumere, decisamente fuori dagli schemi ma, ancor più per questo, capace di suscitare interesse e consensi (Cfr. “Lo Stato”, 12 maggio 1998).

[25] Sul punto v. I. MAGLI, Quella falsa terra promessa di nome Europa, ne “il Giornale”, 9 agosto 2000.

[26] Anche per questo furono opportune le riserve manifestate anni addietro sull’euro da Antonio Martino, a proposito delle quali c’è da rammaricarsi che non abbiano trovato ascolto. Nel corso di un’intervista resa al “Giornale”, egli affermò, tra l’altro: “Non è affatto certo che la fissazione irrevocabile dei tassi di cambio abbia successo…”, aggiungendo di ritenere pericoloso “imbarcarsi in un’avventura di questo genere senza aver previsto la possibilità di un fallimento” (v. Un irresponsabile salto nel buio, 9 gennaio 1999).