"METODO", N. 22/2006

Carlo Dignola
(
Giornalista, redattore capo del Supplemento ‘Culture’ de “L’Eco di Bergamo”)
INTERVISTA
AGLI STORICI ATTILIO BARTOLI LANGELI E MARIA PIA ALBERZONI
SU SAN FRANCESCO ED I SUOI SEGUACI
Ha collaborato Alberto Pesenti Palvis

Gli storici Bartoli Langeli e Alberzoni spiegano che Leone, il discusso Elia, che fu l’ultimo superiore laico dei Minori, e la stessa Chiara facevano parte di una cerchia molto vicina al primitivo carisma francescano. Ma essa fu un po’ travolta dall’iniziativa di grandi Papi come Innocenzo III e Gregorio IX, che con motivazioni di governo della Chiesa ma anche politiche finirono per far prevalere la corrente dei “conventuali” su quella degli “spirituali”. Fu una svola inevitabile in quegli anni di contrapposizione all’Impero, ma l’Ordine finì per tradire lo spirito laico e fortemente antiintellettuale del santo, la sua scelta radicale per la povertà e la semplicità

Chi è stato veramente, San Francesco? “Un laico” dice il professor Attilio Bartoli Langeli. L’uomo forse più simile a Cristo che fosse mai nato tra l’anno 33 e il XII secolo non era un prete: “La laicità è una nota precisa del suo modo di vivere, che lo caratterizza in tutti i sensi: se fosse stato un chierico Francesco avrebbe scritto in maniera diversa, avrebbe letto, predicato, avrebbe forse anche agito in maniera diversa. La laicità è la sua condizione culturale di partenza, che ha sempre mantenuto, nonostante gli sforzi che quelli più vicini a lui fecero per avvicinarlo invece a un modo di vivere e di concepire il rapporto con il Vangelo più chiericale”. Non fu mai un anticlericale però. Anzi, fu devotissimo alla Chiesa, soprattutto al Papa. E proprio a lui, e al ruolo che in quegli stessi anni il Pontificato andava assumendo in Occidente, dobbiamo il fatto che l’esperienza di Francesco di Assisi sia arrivata fino a noi e non si sia invece dispersa nelle molte zone d’ombra della storia, come è accaduto invece per tanti altri piccoli predicatori spontanei, a volte un po’ eretici ma spesso anche sinceramente cristiani, che sorsero un po’ ovunque tra XII e XIV secolo, da Giovanni Buono a Gerardo Segarelli, da Pietro Valdo a Giovanni di Meda. Se noi oggi conosciamo bene Francesco di Pietro Bernardone lo dobbiamo proprio alla Chiesa, che lo ha capito, amato, valorizzato. E ciò è avvenuto nonostante il fatto che un processo di istituzionalizzazione in pochi decenni abbia finito per cambiare faccia al francescanesimo, in qualche modo nascondendo e anche tradendo qualcosa della sua origine, che fu capace in pochi anni di contagiare, con il suo fascino, decine di migliaia di uomini ai quattro angoli dell’Europa. Forse proprio oggi gli studi storici più avanzati riescono a riportare alla luce qualcosa della forza originaria, rivoluzionaria del modo di vivere il Cristianesimo di Francesco, ma essa non sarebbe giunta fino a noi senza il veicolo dell’istituzione, della Chiesa, del Soglio di Pietro in primis. Qui sta il paradosso di quest’uomo, che è in fondo un paradigma estremamente chiaro di ciò che la stessa Chiesa è: novità e tradizione, santità e ordine, carisma e gerarchia, avvenimento e magistero, senza che l’uno possa mai stare senza l’altro. È quanto emerge da una conversazione con due storici che stanno studiando in maniera molto approfondita i primi anni di questa straordinaria vicenda: Attilio Bartoli Langeli, uno dei maggiori paleografi italiani, che ha studiato accuratamente l’Italia dei secoli XIII e XIV, in particolare il movimento francescano, e Maria Pia Alberzoni, professore associato di Storia medievale all’Università cattolica di Milano, che sta indagando proprio la cerchia dei primi seguaci di Francesco.

Quella della laicità, fu una scelta precisa di Francesco?
Bartoli Langeli: Se per “scelta” si intende una contestazione, o una ribellione all’ordine costituito non credo proprio che sia questo il caso. I dati storici ci mostrano la venerazione totale che aveva per i sacerdoti, per coloro che amministrano il corpo e il sangue di Cristo. Non sollevò mai alcuna polemica – come avrebbe fatto un contestatore – nei confronti della loro cultura e soprattutto del loro ruolo. Ma nello stesso tempo marcò la propria differenza rispetto a quella categoria di persone. Che d’altra parte accolse con grande tranquillità e affetto nella primitiva Fraternità da lui costituita: in essa c’erano laici così come c’erano chierici, il primo francescanesimo fu un esempio più unico che raro di pluralismo culturale e di varietà di figure sociali. Poi la storia dell’Ordine è andata in maniera diversa, com’era naturale che accadesse.

Il Cantico delle creature è una preghiera molto diversa dalle solite. In questo modo di esprimersi, c’è una presa di distanza non solo dal clero ma anche dagli intellettuali del suo tempo?
Bartoli Langeli: Sì, non c’è dubbio. Le due categorie di persone allora coincidevano: il lavoro intellettuale, la scrittura e la lettura colte, lo studio accurato dei testi erano prerogative in primo luogo e quasi esclusivamente dei chierici. I laici ne erano esclusi, almeno per quanto riguardava i testi sacri. Nel ’200 però erano sorte altre modalità di rapporto con essi, che Francesco appunto ci mostra: quando lui legge il Vangelo, si sente davvero il Vangelo. Ogni tanto nelle leggende e nelle biografie ufficiali, in mezzo a un latino faticoso, spezzato, in qualche caso anche scorretto, affiorano quelli che sono spunti linguistici originali di Francesco, che appartengono a un mondo di esprimersi indubbiamente diverso da quello della sapienza scritturale dei chierici, anche se non necessariamente migliore o schierato contro di esso. Che poi questo modo di leggere e di narrare il Vangelo abbia provocato quello scompiglio che di fatto Francesco ha provocato, è indubbio: quest’uomo ha innescato un’autentica rivoluzione che ha investito tutta la religione dell’Occidente.
Alberzoni: Come Francesco però, all’epoca potevano essercene numerosi altri. Ad esempio Geraldo Segarelli di Parma, che poi passò per eretico ma che era emer- so proprio per una esasperata insistenza sulla povertà che ricorda da vicino quella francescana. Il punto di partenza dei due è molto simile, l’invito ai frati a fare penitenza, ad avere una sola tunica, come dice il Vangelo, che Segarelli intende seguire alla lettera. Anche lui è un laico, i suoi discepoli si dicono “apostoli” perché vogliono imitare in tutto l’esperienza della Chiesa primitiva. Anche lui si rivolge alla Curia romana, e trova un cardinale protettore. Come c’è il caso di Giovanni Buono, una sorta di attore che a un certo punto si dà prima alla vita eremitica – come fece lo stesso Francesco -, quindi si trova attorno dei soci con i quali inizia una piccola fraternità, che a poco a poco si ingrandisce... E anche Giovanni Buono era famoso per le sue boutades, per certe espressioni eccentriche. Un certo modo un po’ spettacolare di esprimere la religiosità è tipico dei laici: il chierico ha una sua misura, un suo stile, l’uomo di cultura arriva a certi contenuti in modo codificato, attraverso procedure di tipo scolastico. Il laico invece cerca di esprimere un’idea, un sentimento ponendosi senza mediazioni, vuole colpire direttamente nel segno. Se i chierici elaborano un sillogismo per dimostrare che “Dio è tutto in tutti”, il laico butta lì un esempio, per parlare della Natività la mette in scena – come fece Francesco a Greccio -, per indicare la penitenza si cosparge il capo di cenere, piange... C’è molta più fantasia nei laici.

Francesco sa parlare linguaggi diversi, non solo quello scritto: comunica con le immagini, le parabole, con il corpo, la mimica. Non a caso lo intendono anche gli uccelli. Sembra avere una forza espressiva più efficace del linguaggio astratto. Eppure è evidente che anche la sua è una “sapienza”.
Bartoli Langeli: Diciamo innanzitutto che era trilingue: parlava la lingua materna, il volgare della valle umbra meridionale; poi conosceva bene il francese, che era la lingua internazionale della letteratura di allora – tanto è vero che il padre lo chiama così: “francesco” -, e aveva imparato anche il latino. Un latino che tutti gli storici definiscono “biblico”, maturato cioè attraverso la memorizzazione dei testi sacri. C’è il problema della veste linguistica che i testi di Francesco hanno assunto in forza della scrittura e riscrittura da parte di altri, che naturalmente padroneggiavano con competenza il latino; c’è stata probabilmente, da parte dei suoi biografi, la tendenza a intervenire su un latino che originariamente non era forse felicissimo. In effetti l’unico testo di Francesco tramandato in volgare, il Cantico delle creature, non è un discorso esortativo ma una canzone, probabilmente da lui inventata e cantata, e poi arrivata alla scrittura per opera di qualcuno che ricordava di averla sentita sulla sua bocca.

Il volgare umbro però non era una lingua internazionale: come si faceva capire Francesco?
Bartoli Langeli: Esisteva una “lingua mescidata”, una sorta di melting-pot dei predicatori di allora, che permetteva loro di essere compresi un po’ dappertutto. Pietro l’eremita attraversa mezza Europa facendosi capire da tutti, e non certo in latino, lingua che il popolo già non comprendeva più facilmente. Pensiamo ai mercanti che giravano il mondo: dovevano farsi intendere, no? Noi siamo degli studiosi di paleografia e di filologia, ma forse la cosa più immediata per rendere l’idea è pensare a un personaggio come Brancaleone. In fondo siamo a quel livello: ogni tanto ci metti una parola di latino, ogni tanto una parola di francese e tutti ti comprendono. Nell’area romanza, almeno. Ho l’impressione invece che in Germania o in Ungheria le cose stessero un po’ diversamente: quando i frati minori vanno in queste terre, infatti, ricevono legnate, sostanzialmente perché non li capiscono e li prendono per dei personaggi un po’ pericolosi per la fede stessa.

Noi oggi concepiamo la lingua come qualcosa di “nazionale”, allora i suoi confini erano molto più elastici.
Bartoli Langeli: La nostra è una lingua retta da una grammatica; nel ’200 il volgare era senza regole, se non quella di farsi capire. E c’erano persone più o meno brave in questo. Ricordiamoci che Francesco era figlio di un mercante, abituato a girare il mondo e intendersi con tutti. Potevano esserci altri fattori, non linguistici, che impedivano la comprensione di quello che Francesco diceva: quando a Perugia i nobili si misero a scavallare e a battere le spade e i tamburi per non far sentire la sua predica, e infine lo cacciarono dalla città, evidentemente si trattava di incomprensioni e di idiosincrasie di altro tipo. Ma quando parlava a Bologna, o nell’Italia meridionale prima di partire per la Terrasanta, piuttosto che in Francia o altrove, tutti lo comprendevano benissimo. E parlava in volgare, senza dubbio. Papa Innocenzo III a Orvieto predica dottamente in latino: si presentano soltanto chierici, però. Francesco ha un orizzonte diverso.

Professoressa Alberzoni, lei sta studiando la storia dei primi amici di Francesco.
Alberzoni: La cerchia dei cosiddetti “soci”, che è arrivata fino a noi con le figure di frate Leone, del beato Egidio, di molti personaggi che gli spirituali hanno un po’ “sponsorizzato”, in opposizione ai conventuali. Presso di loro – come mostrava già il film di Liliana Cavani “Francesco” – la stessa Chiara era assimilata apertamente ai soci: come testimone e anche come portavoce della memoria del santo è sicuramente il personaggio chiave, anche per gli altri fratelli. Tanto è vero che Leone, Angelo e poi molti altri ruotano intorno al suo convento in San Damiano. Chiara è legata al gruppo dei soci di Francesco di più antica data, gli umbri, che si mettono presto in contrasto con la dirigenza dell’Ordine. Tra di loro c’è anche frate Elia, che io ritengo uno dei più fedeli interpreti del carisma originario, sebbene sia una figura controversa: uomo di fiducia di Francesco, ancor prima della sua morte divenne ministro generale dell’Ordine, ma fu deposto dal Papa in persona. Dietro c’erano i contrasti con i frati transalpini che avevano un’idea già molto chiericale dell’Ordine, mentre Elia è l’ultimo generale laico dei Minori. Verrà poi presentato come il personaggio che tradisce Francesco, che smarrisce la Regola che questi aveva scritto... Noi oggi abbiamo invece molte testimonianze che ci permettono di osservare come tutti questi dissidenti dalla linea dei conventuali, compresa Chiara stessa, avessero stretti contatti proprio con Elia. Certo nel 1239, quando viene scomunicato, Elia non obbedisce al Pontefice, mentre Francesco con ogni probabilità l’avrebbe fatto. Ma noi sappiamo anche che purtroppo Gregorio IX in quegli anni, nell’aspro confronto con l’imperatore Federico II, eccedette un po’ con le scomuniche... Chiara, in una sua lettera ad Agnese di Boemia, raccomanda apertamente di attenersi proprio alle parole di frate Elia – allora era ancora ministro generale – che sono, scrive, “più preziose dell’oro”: “Tienile come vere, e anche se qualcun altro – leggi: Gregorio IX – ti dice di fare diversamente, tu non seguirlo ma segui Elia”. Questo mi sembra un indizio sicuro del fatto che Chiara considerasse Elia un fedele interprete di Francesco. Grazie anche alla pubblicazione di documenti nuovi, come le Carte duecentesche del Sacro Convento di Assisi che ha curato proprio Bartoli Langeli, oggi è possibile conoscere nuovi aspetti di questa storia. Non c’è dubbio, ad esempio, che Leone considerasse proprio Chiara la vera depositaria della memoria di Francesco: altrimenti non avrebbe lasciato a lei certi cimeli che erano per lui carissimi. Il cosiddetto “Breviario di santa Chiara” – che era in realtà quello usato da Francesco – Leone lo aveva tenuto presso di sé; prima di morire non lo lascia ai suoi fratelli Minori ma alla badessa che era succeduta a Chiara.
Bartoli Langeli: Leone evidentemente considerava queste donne le vere eredi di quell’esperienza altissima, le persone più meritevoli di ricevere i signa della santità di Francesco.
Alberzoni: Le clarisse ai suoi occhi erano coloro che avevano difeso di più la sua memoria. Mentre l’Ordine, la sua dirigenza soprattutto, l’aveva in qualche modo tradita. Dimenticando il periodo delle origini, dando vita a una struttura molto clericalizzata, accentrata soprattutto nella grandi città, in particolare Parigi.
Bartoli Langeli: ...e molto legata alle università. Esattamente cioè a quella cultura chiericale dalla quale, come si diceva, Francesco era rimasto ben distante. Fu uno sbocco del tutto naturale dati i tempi, ma certo la differenza c’era. E fu sentita come tale. Vivente lui, da Francesco stesso. E poi da questi suoi soci, un po’ nostalgici ma molto fedeli.

Non è un caso strano che l’eredità di Francesco passi subito anche a una comunità femminile?
Bartoli Langeli: La comunità francescana, a dire il vero, originariamente era mista.
Alberzoni: Leone era solito soggiornare da Chiara. Francesco stesso lo vediamo spesso a San Damiano, la sede che aveva sistemato per farne una dimora per lei e le sue sorelle. La predica con la cenere si svolge proprio lì, e c’è anche Elia presente. Quando compone il Cantico delle creature Francesco si trova nel famoso orticello di san Damiano, che esiste ancora, da cui si vede tutta la piana di Assisi. Spesso i frati si ritrovano in quel luogo: fratelli e sorelle, nella comunità primitiva, sono proprio la stessa cosa. Nella seconda Vita di Tommaso da Celano Francesco dice che i frati e le “povere signore” sono “nati dallo stesso Spirito”. In Chiara, del resto, è molto forte l’idea di essere lei stessa parte dell’Ordine dei frati minori.
Bartoli Langeli: Poi arrivò la clausura, che indica una scissione netta e necessaria fra comunità maschili e femminili. Ma il fenomeno dei monasteri doppi è di lunga durata, e – come è ovvio – subì sempre delle resistenze. Non tanto da parte degli episcopati locali, quanto del Papato.
Alberzoni: Anche le comunità degli Umiliati erano doppie alle origini: solo a partire dal XIV secolo si impose la tendenza a separarle. Ma il momento decisivo per la Chiesa è quello intorno agli anni ’30 del ’200. C’è di mezzo anche Federico II, che si scontra apertamente con il Papa. È un momento molto delicato: ricordiamoci che lo stesso frate Elia si era schierato dalla parte dell’imperatore.
Bartoli Langeli: Allora avviene una svolta sotto il segno pontificio, secondo una visione unitaria della Chiesa il Papa interviene di persona, mentre prima su questi fenomeni era sufficiente la giurisdizione del vescovo locale. Il ruolo fondamentale fu di Innocenzo III e poi soprattutto di Gregorio IX: qualcuno dice che il vero fondatore dell’Ordine dei Frati minori fu proprio il cardinale Ugolino divenuto Papa. Certo è che, come tutti i nuovi ordini del ’200, quello francescano è un ordine papale.
Alberzoni: Queste francescane originariamente dovevano configurarsi come comunità ospedaliere. Le Vite di Tommaso da Celano accennano a “quando ancora i frati stavano negli ospedali o nei lebbrosari”; ed è noto l’episodio in cui Francesco stesso incontra un lebbroso. Questa presenza tra i sofferenti è sicuramente legata alla riscoperta dell’umanità di Cristo, che dal XII secolo in poi si diffonde in strati sempre più ampi della Cristianità, con la venerazione per i Luoghi santi, per Gerusalemme, segni tangibili della vita umana di Gesù. Una sensibilità che pone un’attenzione nuova per i poveri bisognosi, visti ora come la presenza stessa di Cristo, da servire. Questa è l’idea iniziale di Francesco, che viene confermata dal forte legame che il santo riesce a stabilire, per sua fortuna – e anche grazie al vescovo di Assisi che lo appoggia – con la Curia papale.

Poi il Papa però interverrà con i suoi criteri.
Alberzoni: La comunità di Chiara verrà indirizzata decisamente verso la clausura: nasce in questi anni quella che ancora oggi si chiama appunto “clausura papale”, inventata proprio da Gregorio IX. Allora era una novità, che Bonifacio VIII avrebbe poi esteso a tutti i monasteri femminili. Nella pianta di San Damiano, attraverso le ricostruzioni stratigrafiche che sono state fatte negli ultimi anni dagli archeologi, si vede bene che la prima struttura del convento era sostanzialmente aperta. Quella che oggi è la chiesa doveva essere un luogo di accoglienza per i viandanti: nel medioevo una costruzione del genere si chiamava appunto “ospedale”. Poi, a poco a poco, la struttura cambia, e già quando Francesco muore doveva esserci una grata a quella famosa finestrella dalla quale Chiara e le monache, quando viene portato ad Assisi, lo vedono passare: quindi nel 1226 qualcosa di sostanziale era già cambiato. Ma all’inizio i francescani, fratelli e sorelle, non avevano neanche l’idea di un chiostro o di qualcosa di simile: la vita di queste comunità si svolgeva all’aperto, come peraltro nel monastero bergamasco di Valmarina. L’idea di fondo degli Ordini mendicanti è sicuramente di Francesco e di Chiara, ma gli Ordini come li conosciamo noi oggi sono profondamente debitori di questi decisi interventi papali che, certo, hanno indirizzato i frati in un senso più chiericale e le monache in un senso più claustrale.

Francesco raccomandava ai suoi di non possedere libri, temeva l’orgoglio intellettuale che deriva dalla conoscenza. La sua fu veramente una rottura con l’intellettualismo? È giusto contrapporlo a Domenico sotto questo aspetto?
Bartoli Langeli: Non era una posizione del tutto nuova: nella Chiesa ci sono sempre stati movimenti antiintellettuali. I gruppi eterodossi avevano tutti una componente di questo tipo, che invocava una lettura diretta della Bibbia e del Vangelo. Non necessariamente però queste posizioni erani in polemica con la Chiesa: gruppi che si rifacevano agli stessi testi, alle stesse auctoritates, ragionavano spesso in maniera molto diversa. In Francesco c’è un culto particolare per le “divine parole scritte”, un’espressione, questa, che ricorre frequentemente nei suoi testi. Le parole che sono nel Vangelo, o che derivano da esso, per lui devono essere raccolte, poste in luoghi degni e venerate. E raccomanda più volte di considerare e osservare i testi evangelici e i suoi stessi scritti, come la Regola, “simpliciter” e “sine glossa”, come dice nel suo Testamento. Sul sine glossa sono tutti d’accordo: la glossa era lo strumento tipico del lavoro esegetico, la spiegazione che a volte finiva per essere molto più lunga, articolata e complessa dello stesso testo che intendeva commentare. Ma forse non si è fatto caso a sufficienza alla parola “simpliciter”, che non significa, come noi tradurremmo in modo banale, “semplicemente”, ma “da semplici”: è un ragionare di questo tipo che il santo raccomanda. Francesco di sé dice di essere “simplex et idïota”, che non vuol dire idiota ma illetterato, un uomo cioè che aveva un rapporto con i testi – specialmente con le “divine parole scritte” – non mediato dalla cultura ecclesiastica, dallo studio intellettuale, ma “semplice” nei due sensi: diretto, senza mediazioni, senza commenti, divagazioni, deviazioni, e anche tipico di una persona semplice, che sapeva a stento leggere e non aveva certo la preparazione dei grandi filosofi e teologi dell’epoca. Anche in questo caso – qui torniamo al nostro discorso iniziale – si può parlare di “laicità” di Francesco per indicare appunto un approccio culturale diverso, alternativo alla cultura chiericale. Non si trattò però solo di una esperienza individuale, sia pure altissima. Nella seconda metà del XII secolo e nella prima metà del XIII ce ne furono altre del tutto analoghe. La differenza sta nella miscela quasi miracolosa che venne a crearsi tra la vita dei “fratelli” assisani, la Curia romana e l’impatto generale della vocazione francescana sulla popolazione, la straordinaria capacità di appeal di Francesco. Tutto ciò portò alla costituzione di un Ordine che nel giro di una decina d’anni divenne, quantitativamente parlando, il più grande dell’Occidente medievale. La crescita numerica – quella che Bonaventura chiamava la “moltiplicatio fratrum” – è stata il clic che ha fatto di tutto questo grumo di esperienze, di sentimenti, di concetti, una bomba che avrebbe scosso la Cristianità intera.