"METODO", N. 22/2006

EDITORIALE

Goffredo Fofi
(Critico letterario)
MASS-MEDIA: CHE FARE?

Nota del direttore

A trent’anni dall’uscita di Mass-media: che fare?, edito da “Ombre Rosse”, N. 17, Novembre 1976, pp. 76-80, e date le sue estreme attualità e importanza, la direzione di “Metodo”, con parere favorevole dell’Autore, ha deciso la pubblicazione integrale dell’articolo, ch’era la prefazione al libro (pubblicato successivamente) di Marcello Giacomantonio, Insegnare con gli audiovisivi: metodologie per la didattica, Mazzotta, Milano 1976, 211 pp.

Giovanni Armillotta

È venuto da poco il momento di interrogarsi davvero seriamente, in Italia, sui mass-media. Fino a oggi, anche con gli slanci, gli entusiasmi e poi le delusioni del 1968, il freno a una coscienza più acuta se non più chiara dei problemi che riguardano i media era dato dalla discrepanza esistente tra lo sviluppo delle forze produttive che, nonostante la crisi, aveva visto il salto fondamentale del boom dei primi Anni Sessanta, e l’arretratezza politica istituzionale, che risentiva ancora, nonostante il centrosinistra, di tutto il peso del regime democristiano consolidatosi negli Anni Cinquanta. Forse solo col compromesso storico e con la rottura del monopolio democristiano sta veramente avvenendo l’ingresso dell’Italia nel numero delle nazioni tardocapitalistiche, provocando una situazione profondamente nuova e che non ha ancora trovato nelle nostre file chi sappia adeguatamente interpretarla. Lo sconcerto del dopo elezioni, la titubanza di fronte ai compiti di una nuova analisi delle classi, l’insicurezza dei gruppi, sono altrettanti segni di un disorientamento profondo, che ha molte delle sue radici nella impreparazione teorica (e con teoria s’intende anche alla cinese, inchiesta) di una sinistra rivoluzionaria che s’è affidata al perfezionamento e aggiornamento più culturale che politico della tradizione riformista, alla spontaneità della risposta e dell’invenzione di breve raggio, mentre ha tenuto in scarsa considerazione l’obbligo di una teoria sul presente, storica e non quotidiana. Sul piano culturale, nel senso lato degli strumenti d’analisi e della capacità d’intervento sulle contraddizioni generali e particolari, del sistema e nostre, strutturali e antropologiche, dobbiamo scontare un’impreparazione di lunga data, fatta di schematismi acquisiti e di improvvisazioni più o meno brillanti. Che non servono, o meglio non bastano, alla elaborazione di risposte adeguate all’ampiezza dei progetti e del potere del nemico.
Il segno nuovo è, nel «sistema» italiano, quello del «pluralismo»; in altri termini. quello di una compromissione nel potere, stavolta radicale, del revisionismo. Ma essa avviene mentre la borghesia e il suo partito delegato sono tutt’altro che alla semplice difensiva, e si dotano di un progetto sufficientemente organico dopo il disorientamento e il disordine della prima metà degli Anni Settanta. Cercano di trattare da posizioni di forza anche sul piano sociale di un consenso di massa e di organizzazioni di massa. Agnelli entra nella DC, la DC «entra» in Comunione e Liberazione, Comunione e Liberazione tenta di entrare tra le masse impossessandosi degli slogan della partecipazione di base e rovesciandone oscenamente il segno. E gli esempi potrebbero continuare, potrebbero differenziarsi e precisarsi. Di fronte a questa offensiva, il revisionismo, in una non-complessa logica di infiltrazione e difensiva, tratta concedendo e talora svendendo, e va precisando sempre di più la sua natura neosocialdemocratica. La nuova sinistra assiste, si direbbe per il momento quasi impotente, a questi processi e a quello contemporaneo dei pericoli di disaggregazione di un «movimento» che non trova nelle sue diverse componenti né la indispensabile solidarietà né la indispensabile «scienza».
Le società tardo-capitalistiche hanno bisogno di un libero gioco di informazioni; che renda conto delle loro interne componenti nel loro continuo riequilibrarsi, che venga da e stimoli lo sviluppo della peculiare e sfaccettatissima industria dei media, e che permetta comunque un più raffinato controllo delle coscienze reso nei suoi meccanismi più complesso dalla crescente complessità della differenziazione (e disgregazione) sociale. La trasformazione è stata lenta: dalla informazione ristretta alla classe degli «abbienti» dell’Italia liberale, all’«unica proposta di vendita» del fascismo, alla manomissione cattolica e democristiana del dopoguerra, alle aperture controllate del miracolo economico, e infine, oggi, alla lottizzazione, a vari livelli, tra i vari poteri.
Ma il dato emergente di quest’ultima fase è certamente quello della trasformazione dell’industria della coscienza in un potere in progressiva crescita corporativa. Stampa, radio, televisione, pubblicità, editoria, cinema, canzone e parzialmente teatro – con forti distinzioni interne, ma probabilmente destinate a un equilibrio progressivo – sono veramente diventati un «quarto potere» che tende a conquistare spazi di autonomia (pur tuttavia corporativa) nei confronti dei suoi stessi padroni. La corporazione dei giornalisti, ad esempio, non è mai stata così vasta e così potente come oggi, in grado di influire a tal punto nel dibattito e nelle scelte politico-istituzionali con ogni mezzo (pensiamo, caso estremo, alle guerre tra «servizi segreti» che partono dall’interno di certi settimanali) al servizio spesso del sistema più che del singolo padrone. I gruppi di potere – compresi quelli della sinistra – si danno i loro organi di propaganda e di pressione, i cui membri (per ora nell’ambito del centro, centrodestra e centrosinistra padronale) si coalizzano in modo diretto o indiretto e pongono le loro condizioni, rimescolano i loro giochi confusi.
Il sistema è sottoposto per definizione a continui riassestamenti, per le difficoltà inerenti ai suoi contrasti interni e per quelle che gli vengono da un proletariato che non demorde, e i mass-media servono contemporaneamente a esprimere i contrasti interni e a fronteggiare i radicali interessi proletari cercando di ricomporli in continuazione in una norma accettabile: fingendosi che il proletariato sia weberianamente una delle molte componenti e uno dei molti poteri che del sistema fanno parte (e lo sono molte sue rappresentanze istituzionali), e non il contro-potere e l’alternativa al sistema.
L’industria della coscienza si differenzia per motivi di mercato e per divisione di campi di battaglia. Gioca su più fronti, dal settimanale pornografico alla rivista culturale passando per “L’Espresso”. Tende a non lasciare campi scoperti e, se può, a far concorrenza addirittura agli organi rivoluzionari sul loro stesso terreno (pensiamo a certi apporti de “la Repubblica”). Al suo centro, che è per intenderci quello degli organi delle grandi mediazioni programmate, e pensiamo come caso esemplare alle evoluzioni e al presente del “Corriere della Sera”, il pluralismo svela con più chiarezza la sua unitarietà di fondo. La figura che domina su questo piano di «aperture», in variabili controllate, è quella dell’«esperto in universalità». Il e la giornalista, il romanziere, il critico, il poeta, l’economista, il politico ecc., diventano tutti sociologi e filosofi, mentre i sociologi e i filosofi diventano giornalisti. Da qualsiasi punto si parta si giunge allo stesso punto, dove le contraddizioni tra personalità culturali di varia scuola e formazione e tendenza si ricompongono in una stessa melma vischiosa la cui lezione ultima è sempre la stessa. In sostanza, quella di affermare le difficoltà del presente dentro un «destino» che tutti sovrasta e che non è contrastabile, per cui lo stato presente delle cose è l’unico possibile, pur se ad alcuni pare orrendo (e a costoro più orrendo appare e più si fa metafisico). Ogni lamentazione è ammessa, purché concorra a dimostrare che non può esistere un altro stato delle cose, e che l’unica possibile alternativa è limar meglio il pluralismo. Nuovi e vecchi cani da guardia del sistema, gli intellettuali si svendono massicciamente nell’illusione di un’autonomia e di un potere. E sull’altra relativa sponda, quella del revisionismo, si accetta egualmente di tutto (lo scambio di «esperti» è sempre più frequente) in una logica dove però domina un «buon senso» progressista, destinato a diventare vieppiù repressivo nei confronti dei bisogni delle masse non riconducibili nel suo progetto di compromesso.
Il pluralismo lascia spazi, può e deve permettere che parlino anche i rappresentanti culturali dell’«estremismo». Il progresso tecnico dei mass-media fa sì che di alcuni di essi si possano impadronire anche le minoranze. Ma, per occupare questi spazi e utilizzarli a fini che non siano il mero ingresso nel quadro secondario del potere e la proposta di nuove variabili accolte in quanto castratrici della forza del nuovo, occorrono non solo solidarietà «morale» ma soprattutto «spalle coperte». Queste ultime non sempre ci sono e dipendono dalla forza organizzativa di una linea di cui si fa parte e che si vuoi contribuire ad affermare, dipendono, a esser più chiari ancora, dalle organizzazioni politiche a cui si richiama, dal loro radicamento nelle masse, dalla loro lungimiranza politico-culturale. (E non va precisato, dalla loro «politica culturale», ma dalla globalità del loro intervento: non si tratta di resuscitare fantasmi terzinternazionalisti di aberranti «commissioni culturali» buone solo a stabilire alleanze con la categoria degli intellettuali in un’ottica di «compagni di strada»; la cultura è in tutto, e la politica culturale di un’organizzazione la fanno la commissione operaia o quella femminile, quella scolastica e così via). Oggi il sostegno che le organizzazioni rivoluzionarie danno all’elaborazione dell’uso «corretto» dei media, o alla partecipazione agli organi del pluralismo culturale (stampa, tv, cinema ecc.) è piuttosto incerto e scadente.
Anche il contributo teorico dei singoli compagni è in generale assai scarso. Non esistono elaborazioni all’altezza della situazione, e finisce così che ogni scelta diventa individuale o di piccolo gruppo. Sul piano dell’iniziativa diretta nell’uso alternativo dei media, dopo un fiorire di documenti post Sessantotto, e col fallimento parziale di alcuni tentativi di allora (il cinema militante, il videotape...), i testi che oggi circolano sono poveri, ripetitivi, velleitari, oscillanti tra il tecnicismo e l’astrazione. Sul piano dell’inserimento nei media del sistema per proporvi un discorso altro, la situazione è ancora peggiore, e non resta al singolo che la sua privata forza morale e di discernimento nella scelta di starci, dapprima, e poi nel modo di operarvi. Si pensi a tanti compagni del dopo-sessantotto finiti nelle case editrici, nella TV, e soprattutto nei giornali, inizialmente pieni di grandi volontà e pian piano, per isolamento, fragilità, e mancanza di una chiarezza che non sapevano dove pescare, inglobati smortamente nei condizionamenti e negli autocondizionamenti... A sinistra, dunque, ha regnato in questo campo un’ambiguità assai grave, divisa in sostanza in due posizioni discutibili: il moralismo di fronte ai media, o l’entrismo-opportunismo individuale o di gruppo.
La «nuova sinistra», scrive Enzensberger in “Palaver”, «Ha ridotto lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa a un unico concetto: quello della manipolazione», e cioè alla denuncia-demistificazione della funzione e dell’operato dei media astratta dalle loro possibilità d’uso. «La paura di toccare la merda è un lusso che ad esempio chi lavora alle fognature non può senz’altro permettersi», aggiunge Enzensberger. L’accusa è fondata, ma è anche vero che modi obbligati di «toccare la merda» non richiedono il grado di corresponsabilizzazione e compromissione che i media del sistema impongono. Il moralismo ha dunque avuto e ha una sua ragion d’essere, in assenza dei sostegni di cui si diceva.
Il discorso è più semplice per quei mezzi che permettono un uso immediatamente diverso, gestibile cioè per piccoli gruppi di base senza le condizioni dei grandi canali e dei grandi mezzi. In questo caso si sono invece alleati un volontarismo senza molte radici nei confronti dei nuovi media, da parte di piccoli gruppi, e un ricorso a mezzi stantii, assolutamente non all’altezza delle possibilità reali e delle contraddizioni reali. Tipico esempio quello ancora ricordato da Enzensberger degli studenti francesi del Maggio che hanno occupato l’Odeon invece che la radio-rv, e hanno volantinato alle masse con i «legni» della Scuola di belle arti. Ma basterebbe vedere la pratica delle nostre organizzazioni perché gli esempi si allunghino e varino. Il risultato è l’incertezza attuale, tra velleità e controspinte, tra moralismo e opportunismi.
Si sono bensì affermati dei principi. La discussione sulle differenze tra informazione, controinformazione e comunicazione è stata imperante e, crediamo, tuttora valida. L’esperienza delle radio libere ha confermato la differenza tra l’uso tradizionale (manipolatorio) dei media, e il loro uso alternativo di scambio e comunicazione tra ricevente e trasmittente, e a volte anche tra gruppi rice-trasmittenti. Ma siamo ancora molto lontani da una chiarificazione approfondita: l’unica a poter permettere di «toccare la merda» avendone in cambio risultati utili non al singolo ma alla classe, nel caso delle iniziative alternative, a poterne cogliere tutta la novità e tutta l’ambiguità per servirsene in modo adeguato al maturare delle situazioni e alle necessità della lotta.
Nell’attesa di questa chiarificazione cui devono concorrere gli interessati in un dibattito meno approssimato e immediastico, meno empirico di quanto oggi non avvenga, diventa essenziale cominciare a diffondere la conoscenza dei media fuori della cerchia specialistica, onde evitare per l’appunto che il dibattito resti privilegio di gruppi ristretti di intellettuali e di dilettanti.
Ogni prefazione rischia di diventare una sovrapposizione al testo, e questa non sfugge alla regola. Ma proprio perché il libro che qui si presenta vuole essere un approccio «pedagogico» all’uso dei media da parte dei loro destinatari, perché vuole aiutare a sconvolgere la logica del trasmittente e del ricevente, ci è sembrato valido arrivare al libro attraverso l’indicazione e il ricapitolo del vasto e confuso sfondo su cui queste esperienze si collocano, e di cui devono avere dialetticamente coscienza. La funzione principale di Insegnare con gli audiovisivi è quella di mettere in grado chi opera nella scuola o in qualsiasi altro ambito di animazione sociale di impossessarsi di alcune conoscenze tecniche e «linguistiche». E ciò facendo, di smitizzare i media, di accostarne la pratica e la problematica al maggior numero possibile di persone, di fare di questa conoscenza pratica un patrimonio utile alle masse. Dunque anche di permettere che la riflessione teorica successiva diventi frutto di una riflessione che nasce dalla realtà delle esperienze fatte. Di rendere in tal modo più agguerrita la «base» e rendere più concreta e «politica» la ricerca delle soluzioni.