"METODO", N. 18/2002

Enrico Galoppini
(Dottore in lettere e filosofia e laureato in lingua araba
presso l’Università della Giordania di Amman e l’Istituto Bourguiba di Tunisi)

SU ASPETTI IN OMBRA DELLA LEGGE SOCIALE DELL’ISLAM
DI GIOVANNI CANTONI

Era un compito ingrato, ma a qualcuno doveva pur toccare, in tutti i sensi.
Non certo agli studiosi laici o laicisti, ai musulmani di professione, attenti a non giocarsi “soggiorni di studio tutto compreso” in qualche università di Riyad o di Rabat, né a quei religiosi professionisti del “vogliamoci tutti bene”, e neppure all’affollata schiera dei trombettieri di un arlecchinesco regno dell’indistinto, dove ciascuna tradizione religiosa, equivalendo all’altra, viene resa di fatto intercambiabile.
E così è toccato a Giovanni Cantoni mettere i classici puntini sulle “i” di un’islamistica a suo modo di vedere colpevolmente miope (perché vuole esserlo) di fronte a quel che - secondo il reggente dell’Alleanza Cattolica - rappresenta al tempo stesso il dato fondamentale dell’Islam e il grande assente in buona parte delle trattazioni ad esso dedicate: la sua dimensione pubblica, che si esplica nella stretta interconnessione tra quel che generalmente intendiamo per religione, società e politica.
Aspetti in ombra della legge sociale dell’islam. Per una critica della vulgata “islamicamente corretta” (Centro Studi sulla Cooperazione ‘A. Cammarata’, S. Cataldo [CL] 2000, pp. 174, £. 20.000) è un libro troppo ricco di spunti perché lo spazio angusto di una recensione basti ad esaurire la riflessione che su di essi si impone. Cantoni non ha dubbi e rigetta perentoriamente l’islamofilia dogmatica di vari orientalisti, l’islamicamente corretto - variante del più generale politicamente corretto - veicolo di una visione facilona del rapporto tra cristiani e musulmani il cui marchio di fabbrica non ha affatto i connotati della reciproca comprensione, o almeno di un proficuo (nei limiti dell’utilità e della sensatezza) compromesso, ma dell’acritica accettazione da parte di molti addetti ai lavori del punto di vista islamico. E’ un autentico tradimento dei chierici quello che l’Autore denuncia, quando - tanto per fare qualche esempio delle distorsioni da essi propalate - si parla a vanvera di Gente del Libro, si additano al tribunale della storia solo le Crociate o l’Inquisizione e non la plurisecolare pressione armata di eserciti e marinerie musulmane, si declamano le virtù di una religione senza clero, si esagera la portata del fenomeno delle conversioni di cristiani; ma la gravità di tale tradimento emerge in pieno quando Cantoni rimprovera i chierici di sottovalutare, se non proprio di tacere, quel che costituisce La diversità dell’Islam(1), ovverosia la centralità nella visione islamica del mondo della šarî‘a, la legge di Dio ricavata in primis dal Corano e dal corpus di tradizioni profetiche, e della umma, la comunità dei credenti, con relativa assenza del concetto di persona connaturato alla nostra identità europea. L’adozione di un approccio di tipo protestantico che privilegia il momento personale a scapito della corretta valutazione della dimensione sociale è quindi fomite di abbagli talvolta clamorosi e a niente servirebbe obiettare che oggi nessuno Stato a maggioranza musulmana applica integralmente la šarî‘a per poter opporre argomenti alle tesi del direttore di “Cristianità”: l’ideale dell’Islam sarebbe essenzialmente utopico ed ogni musulmano vivrebbe perennemente nella speranza di veder instaurare lo Stato islamico, ideale e necessario complemento della pratica religiosa individuale affinché egli possa dire di Vivere l’Islam(2).
“Sgombrare il campo da molte ingenuità diffuse sull’islam”, secondo il prefatore dell’opera, Padre Samir Khalil Samir, significa quindi prendere atto che una corretta informazione sull’Islam non la si persegue raccontando quel che si gradirebbe che fosse l’oggetto del proprio studio e che invece a suo dire non è, ma parlando con franchezza, come fanno del resto i più autorevoli pensatori musulmani, i quali non pensano affatto di camuffare l’Islam per renderlo più gradito ai cristiani, ma sostengono coerentemente che alla realizzazione dell’Islam si perviene anche e necessariamente attraverso l’islamizzazione della società. E’ sulla base di questa constatazione che Giovanni Cantoni ricorre alla parafrasi (ché, come si sa, il Corano è intraducibile) del Libro Sacro rivista e controllata dottrinalmente dall’Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia per citare passaggi coranici e note esplicative a sostegno delle sue tesi.
Secondo l’Autore di questo studio - poiché di studio si tratta e non di semplice pamphlet dalla vena polemica ma inevitabilmente folcloristica - non sono pochi i casi in cui gli orientalisti o arabisti che dir si voglia, pur facendo menzione di quel che a suo avviso costituisce l’intima essenza dell’Islam non danno il giusto risalto alla sovrapposizione sostanziale tra dîn, dunyâ e dawla, fede, società e Stato. Che non si tratti di una questione da derubricare con una semplice scrollata di spalle ce lo ricorda il costante flusso verso l’Italia e l’Europa di persone di religione musulmana, portatrici della concezione della vita ricordata poc’anzi - soprattutto se una discreta consistenza numerica li incoraggiasse a porla sul tappeto dell’attualità politica -, mentre di non secondaria importanza è la questione della condizione del non musulmano in una società a maggioranza musulmana che, a detta di Cantoni, è invariabilmente dedotta dalle disposizioni sciaraitiche sullo statuto del dhimmî, di colui al quale lo Stato islamico dà protezione pur riconoscendogli differenti diritti e doveri rispetto ai musulmani. Gli ostacoli di ogni tipo all’annuncio del Vangelo e alla costruzione di chiese nei paesi della mezzaluna(3), supinamente accettati da chi, abdicando dalla propria funzione, preferisce il quieto vivere, portano alla ribalta il problema fondamentale della mancanza assoluta di reciprocità in un rapporto del cui squilibrio risente anche il cosiddetto dialogo islamo-cristiano, un dialogo tra sordi innanzitutto perché le personalità musulmane in esso coinvolte dipendono fortemente da un potere politico che, nel Vicino Oriente e nell’Africa del Nord, conscio che la forma più efficace di consenso è il richiamo all’Islam, incoraggia proprio lo stato di cose denunciato da Cantoni.
Uno stato di cose che, ad ogni modo, sarebbe suscettibile di riprodursi anche in Italia e in Europa solo a patto che l’homo islamicus proposto da Cantoni avesse un sufficiente grado di verosimiglianza, mentre a giudicare dall’innegabile processo di annacquamento del senso di appartenenza religiosa riscontrabile in parecchi musulmani stabilitisi in Europa, che non ha niente a che vedere - sia detto per inciso - con la dissimulazione (taqiyya) descritta dall’Autore del saggio, la piatta figura del fedele musulmano viziato da quell’atavica staticità che l’orientalismo da sempre gli attribuisce, costruendo per tal via un musulmano paradigmatico, avulso dalla realtà, impermeabile ad ogni cambiamento tanto è forgiato dalla fissità della sua religione, si dimostra poco più di un utile postulato. E non vale a puntellare quest’artificio antropologico il ricorso ai testi dei principali teorici del moderno fondamentalismo (un fenomeno più variegato di quanto non venga qui descritto) e alle loro fonti d’ispirazione hanbalite del tardo medioevo islamico, che sarebbe un po’ come se - con tutti i distinguo del caso - provassimo a capire la Cina d’oggi ricorrendo solo ai testi di Lao-Tze, oppure interpretassimo il carattere rumeno solo attraverso la storia della Guardia di Ferro. L’immobilismo e l’immutabilità dell’Islam e del muslim avallati da Giovanni Cantoni lo confermano quindi debitore di quella letteratura specialistica che a suo dire presenterebbe gravi lacune informative, ma che si rivela un provvidenziale strumento polemico sia per chi nell’Islam individua un grave deficit di democrazia, sia per chi vi scorge un pericoloso contendente/concorrente sullo stesso piano della cura d’anime. Non sorprende perciò che l’Autore accolga favorevolmente sia le prese di posizione di Giovanni Sartori(4) che del Cardinale Giacomo Biffi, incontratisi, percorrendo sentieri diversi, nell’agorà - oramai affollatissima - degli apologeti dei diritti umani, il luogo di discussione preferito dai fondamentalisti dell’Occidente di ogni colore. Incamminatisi lungo questa strada non ci si dovrà quindi meravigliare che studiosi musulmani individuino nel colonialismo vecchio e nuovo un rinnovellato spirito salîbî, crociato, una volta constatato che la koiné ideologica di un Occidente senza più avversari se non se stesso e le contraddizioni che porta inscritte nel proprio codice genetico pare essere - specialmente in rapporto alle altre culture - un intruglio progressista mal digerito di religione cristiana, liberismo economico e diritti umani, con vari religiosi fattisi paladini di questi ultimi e un numero non meno considerevole di laici ex tutto improvvisamente scopertisi cattolici ferventi. Il richiamo espresso da Cantoni ad un’analisi di tipo socioculturale alla Huntington - abile creatore di scenari internazionali post-muro alla Fukuyama utili alla gestione del potere planetario - conferma quest’impressione, che cioè nell’avversione ad un certo Islam (che però - e questo è il punto fondamentale -sembra essere l’unico che taluni riescono a concepire) si sia compattato un inedito fronte che raccoglie tutto e il contrario di tutto. E quando “la sinistra liberale accusa la Chiesa di una campagna intollerante lanciata proprio in nome dei valori tipici della sinistra liberale!”(5), mentre i musulmani - che di regola fanno mangiare la moglie in cucina - trovano razziste le dichiarazioni contro i matrimoni misti tra cristiani e musulmani(6), si può dunque dire di essere giunti al caos più assoluto.
Assassinio, terrorismo, fondamentalismo, integralismo, diventano allora termini intercambiabili (pp. 133-136), un po’ come fascista negli anni Settanta era sinonimo di violento o di stragista: ogni musulmano recherebbe in sé il germe della sopraffazione culturale e il vero jihâd, non avendo affatto di mira la conversione (e questo è vero), ma il dominio di un potere islamico (questo lo è invece solo in parte), verrebbe attualmente occultato e l’Islam, non potendo gettare ancora la maschera, avrebbe perciò adottato in Europa una strategia dal basso incentrata sulla da‘wâ, volta a fare nuovi proseliti, quinte colonne - anche loro malgrado - della penetrazione islamica in Europa. Dipingendo questo scenario fortemente allarmistico - per il quale oggettivamente alcune forze dell’Islam in Europa stanno lavorando, a giudicare da quel che esprimono e fanno - Cantoni, eccedendo in zelo, scivola sulla classica buccia di banana dell’impressione di forte strumentalità politica di tutta una polemica che il recensore riceve quando, interrogandosi sui problemi posti da una cospicua presenza islamica in Italia (ancor più dopo un’eventuale intesa ufficiale) alla piena sovranità interna ed esterna dello Stato italiano, si inquieta non poco al pensiero dei condizionamenti sulle scelte di politica estera e sull’atteggiamento da tenere verso il mondo arabo-islamico che ne discenderebbero(7). Francamente sorprende constatare che nessuno gridi allo scandalo di fronte all’influenza tradizionalmente e metodicamente esercitata dagli alleati d’oltreoceano quando in diversi scoprono di avere a cuore l’indipendenza dell’Italia nella scelta delle alleanze solo in previsione di un loro orientamento verso paesi delle sponde meridionale ed orientale del Mediterraneo. Ci si perdoni la franchezza, ma tutto ciò ci sembra più che altro un pretesto per agitare lo spettro di una catastrofe imminente, quando il lotto dei cattivi, dopo che fascismo e comunismo agitano i sonni solo di qualche ritardatario, si è ridotto di fatto all’osso. Se invece a qualcuno creasse qualche nostalgia il dover tener conto del peso dei membri della comunità islamica italiana (e conseguentemente degli Stati a maggioranza musulmana) ove si trattasse di ponderare maggiormente l’opportunità di un bombardamento sulle teste di loro correligionari, allora sarebbe proprio un’altra storia, e a poco varrebbe sprecare carta e fiato per dare veste intellettuale alle proprie idiosincrasie personali.
C’è chi ha scritto, convincendo poco Cantoni (pp. 32-33), di uno storico malinteso tra Europa e Islam(8). Ecco, chissà se un giorno qualche storico che vorrà fornire una nuova interpretazione del conflitto in età moderna tra Chiesa e Stato, fede e ragione, laicità e confessionalità delle istituzioni, gettando poi uno sguardo su quell’ardita e bislacca alleanza stipulata nel clima delle polemiche culturali nostrane d’inizio terzo millennio, non ricorrerà - per spiegarla a sé e agli altri - alla stessa espressione.

Note

(1) Cfr. Gilberto Galbiati, La diversità dell’Islam, Atheneum, Firenze 1992.Su
(2) Cfr. Abû ’l-A‘là Mawdûdî, Vivere l’Islam, (trad. it.) I.I.F.S.O., Salimiah-Kuwait 1980.Su
(3) Diffusissimo è il luogo comune secondo cui in alcuni Stati non ve ne sarebbe affatto bisogno per assenza di cristiani e che condanna ad un inspiegabile oblio quei non pochi lavoratori cristiani che, trovandosi ad esempio in Arabia Saudita, sono costretti ad occultare i segni esteriori della propria fede.Su
(4) Si leggano, piuttosto, le considerazioni critiche sul suo recente Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Rizzoli, Milano 2000, svolte da Marco Tarchi in “Diorama Letterario”, n. 244, aprile 2001, pp. 20-23, per comprendere come l’emergenza multiculturale metta in risalto i limiti eurocentrici del liberalismo e la sua conseguente inadeguatezza ad affrontarla.Su
(5) S. Benvenuto, Le antinomie della buona coscienza, “Diorama Letterario”, n. 240, pp. 8-9.Su
(6) Ibidem.Su
(7) In maniera molto più sfumata, è la stessa questione ad essere posta da Renzo Guolo in chiusura del suo Il campo verde: strategie islamiche in Italia, “Limes”, 1, 2001, pp. 209-218.Su
(8) Cfr. Franco Cardini, Europa e Islam. Storia di un malinteso, Laterza, Roma-Bari 2000.Su