"METODO", N. 17/2001

Carlo Piccardi
(Musicologo)
IL DRAMMA LITURGICO MEDIEVALE

Un’esigenza di drammatizzazione è rilevabile fin nelle radici più remote del canto di chiesa. All’inizio fu il semplice canto responsoriale dove il popolo interveniva con brevi ritornelli alla fine del recitativo del celebrante: poi fu la volta del canto antifonico che, originato in Persia, attraverso l’Antiochia conobbe una vasta diffusione in occidente nella forma dell’alternanza tra due cori. Ma in realtà la stessa regolamentazione dell’apparato liturgico (nei sermoni, nelle processioni, nella messa) già sottendeva una dimensione drammatica che, svolgendo in forma rappresentativa le manifestazioni di culto, mirava chiaramente a un coinvolgimento il quale, facendo leva su meccanismi psicologici elementari, sollecitava l’attenzione ben oltre la semplice testimonianza dell’atto di fede. Anzi c’è da chiedersi se la messa, intesa come momento di partecipazione collettiva al culto, avrebbe senso se fosse compresa solo come svolgimento simbologico di una sostanza concettuale la quale invece, articolandosi nella gestualità di un discorso rappresentativo, stabilisce un rapporto comunicativo capace di demolire ogni forma di preclusione intellettualistica e di raggiungere indistintamente il livello di comprensibilità più diretto. Lo sviluppo del canto liturgico sta a testimoniarlo.
Se nei tre secoli che dalla riforma ascritta a Gregorio Magno (eletto papa nel 590 e morto nel 604) vanno fino al periodo in cui per la prima volta è documentata la pratica dei tropi il canto romano fiorisce come manifestazione esclusiva di una religiosità dimensionata al carattere universale della Chiesa – nei termini di una lingua ufficiale promulgata in opposizione al dialetti rappresentati dalle liturgie regionali (mozarabiche, gallicane, ecc.) estirpate da preciso calcolo imperialistico –, a lungo andare l’astratta immutabilità del culto fu intaccata dall’esigenza di un rapporto meno mediato, che lo sviluppo degli inni e delle sequenze già avevano raggiunto nella simmetria strofica e nell’andamento sillabico derivato dal ritmo accentato che la lingua parlata aveva affermato sulle proporzioni di quantità del latino dotto.
Verso 1’850 Notker Balbulus riferiva della venuta a San Gallo di un monaco di Jumièges, il quale gli aveva fatto conoscere un antifonario in cui, sotto i vocalizzi alleluiatici, erano disposti sillabicamente dei versetti. Tale procedimento, oltre a introdurre un diverso peso specifico nella siderea struttura melismatica della melodia, apriva profonde prospettive di trasformazione nel codificato ordine gregoriano che, dalla semplice pratica dei tropi, condusse fino alla polifonia. La pratica dei tropi, dall’iniziale modifica del testo, portò ben presto infatti a forme di composizione autonome che prescindevano dal repertorio liturgico ufficiale; e non è un caso che da tale articolazione espressiva maturasse il concetto del dramma liturgico, sorto esso pure, come tutto il filone delle forme musicali del Medioevo, dal principio di trasformazione degli aspetti formali della liturgia.
Molti tropi infatti contenevano dialoghi che, essendo intonati in modo antifonico, potevano essere sviluppati in drammatizzazione vera e propria. A un tropo pasquale, attribuito a Tutilone da San Gallo e nella sua forma più antica contenuto in un manoscritto del monastero di San Marziale di Limoges databile nei primi decenni del X secolo, si fa risalire l’origine del dramma liturgico. Si tratta del tropo “Quem queritis”, articolato in dialogo tra gli angeli di guardia al sepolcro e le Marie chiamate a compiere il loro atto di devozione sulla tomba del Cristo. Sviluppato in ufficio drammatico, con il titolo Visitatio sepulchri il “Quem queritis” ritrova in almeno 400 manoscritti sparsi per tutta Europa, dall’Inghilterra all’Italia dei Sud, dalla Spagna alla Polonia. Come poteva la Chiesa, cosi severa verso il concetto e il ruolo sociale del teatro, ammettere uno sviluppo del genere? II fatto è che il latino era diventato sempre più una lingua incomprensibile al popolo, per cui a partire dai procedimenti allegorici fino alla teatralizzazione vera e propria tutto diventava accettabile in funzione di una più stretta adesione al momento liturgico. Sul principio della Visitatio sepulchri prese forma il dramma natalizio il quale, come Officium pastorum, pure si fondava su un tropo modellato sull’esempio del “Quem queritis”, ovviamente con i pastori al posto delle Marie. All’inizio esclusivamente basato sulla scena del presepe e quindi piuttosto statico, l’Officium pastorum fu seguito dall’Officium stellæ, che integrava all’azione i tre Magi, acquistando notevolmente in spunti scenici. Una vera e propria processione con i Magi e il loro seguito di servi attraversava allora la chiesa fino all’altare dove venivano deposti i doni. In successive versioni vi figurava anche Erode e la sua corte a fare del dramma natalizio un’occasione di sontuosità e a sviluppare in termini sempre più immaginifici il messaggio liturgico, capace in tal modo di porsi al livello più popolare di comprensibilità. Ancora in questa linea di sviluppo si situano le Processioni dei profeti, concepite come drammatizzazione dell’agostiniano Sermo de symbolo, che enumerava le profezie dell’avvento del Salvatore documentate presso gli ebrei e presso i pagani. Spogliato degli elementi espositivi e narrativi, il monologo venne trasformato in una sfilata di profeti e nella sua prima versione è ancora rintracciabile in un manoscritto di Limoges. Particolarmente interessante è il codice di Laon, dove il profeta Balaam appare in groppa a un asino. Questa presenza dell’asino doveva assumere un particolare significato se la versione contenuta in un manoscritto di Rouen porta esplicitamente il titolo Ordo processionis asinorum. In questi casi l’apparire dell’asino, figura archetipica di personaggio folle e bizzarro risalente a tradizioni pagane, era accompagnata dal canto umoristico “Orientis partibus adventavit asinus”, la celebre prosa dell’asino diffusissima in tutto il Medioevo. Era questa la forma più diretta di concessione al popolo, nei termini di un sincretismo che posteriormente la Chiesa non avrebbe più tollerato.
Pure nell’assecondamento del gusto popolare si situano i drammi del codice di Fleury, almeno per quanto concerne le quattro azioni che si riconducono alla più umanizzata figura di santo. San Nicola (Tres filiæ, Tres clericii, Iconia Sancti Nicolai, Filius Getronius). E in questa evoluzione assistiamo da una parte all’estensione del luogo scenico, nello spazio esterno alla chiesa a diretto contatto con il popolo, e dall’altra al passaggio dal latino al volgare, già evidente nello Sponsus di Limoges; passaggio che si completerà nel Mystère d’Adam (databile tra il 1146 e il 1174), il quale segna pure il predominio della recitazione sul canto in una prospettiva in cui gli aspetti simbologici cederanno viepiù di fronte al realismo scenico, peraltro affermato senza rinunciare alla meraviglia degli apparati spettacolari minuziosamente descritti nelle didascalie dell’Adam, dove tra l’altro era prevista che le vane sortite dei demoni dall’inferno dovessero passare “per plateas”, cioè fra il pubblico, con soluzioni che non sono quindi solo prerogativa di certo provocatorio teatro moderno.
Gradualmente il legame con la liturgia quindi si allenta, ma per buona parte il tentativo di certi studiosi di tracciare un’esatta linea di demarcazione tra drammi liturgici e drammi semiliturgici si rivela inaccettabile. L’esigenza che stava alla base del dramma liturgico non era infatti quella di dar vita a una forma artistica più o meno autonoma, ma corrispondeva al bisogno di assicurare all’avvenimento religioso evidenza rappresentativa, un’esemplarità che si imprimesse in maniera più diretta nella mente dei fedeli. Esso rimaneva perciò un fenomeno non tanto legato al culto, ma addirittura una manifestazione essa stessa di culto, anche se non in forma ortodossa. Anzi, considerato non dalla prospettiva della Chiesa ma del popolo, il dramma liturgico dovette probabilmente costituire il modo più spontanea e partecipato di concepire il culto. Più spontaneo in quanto gli era concesso di attingere liberamente non solo ai testi sacri, ma anche ai sermoni, alle vite dei santi e ai libri apocrifi. Più partecipato in quanto numerosi ruoli, perlomeno quelli secondari, erano affidati ad anonimi cittadini mentre a confermare la continuità del livello liturgico i ruoli maggiori erano assunti dal clero.
In quanto preciso momento di coinvolgimento sociale, con la crescita delle città, questa attività sfuggi al controllo del potere ecclesiastico, soppiantato in questa funzione dalle confraternite e dalle corporazioni. Del 1378 ci sono addirittura documenti che registrano la protesta del capitolo di San Paolo di Londra rivolta a re Riccando II, affinché proibisse a gente inesperta di presentare le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ma la laicizzazione del dramma a quel tempo era già un fatto compiuto per cui il repertorio conservato, al di là del significato religioso, sviluppava nei confronti della vita contemporanea un rapporto realistico di insostituibile portata storica. Nei Miracles de Notre Dame (XIV sec.) dietro una frase quale “Les Anglots m’ont tout tolu” possiamo leggere tutta la tragica realtà della guerra dei cento anni. Mentre nei Miracles de Ste-Geneviève già si può parlare di iperrealismo, trovandoci di fronte all’incessante sfilare di personaggi disgraziati (idropici, lebbrosi, ecc.) pronti per essere miracolati dal santo di turno, ma nel contempo presentati in modo da sottolineare insistentemente le loro afflizioni e il repellente aspetto fisico. Nel contesto realistico dei drammi di Ste-Geneviève è Interessante considerare il ruolo assegnato alla musica chiamata ad accompagnare le apparizioni angeliche, mentre al contrario quando gli angeli escono di scena il testo continua indicando espressamente “sans chanter”. L’atto è di importanza tutt’altro che trascurabile e si pone in linea con l’ipotesi di Nino Pirrotta, il quale ha fatto notare come i soggetti dei primi melodrammi (dalla Dafne all’Orfeo) fossero scelti in modo da rendere plausibile il fatto di assistere all’azione di personaggi intenti ad esprimersi in canto: nella teoria del Guarini gli arcadi erano infatti poeti che esercitavano anche la musica. Nella fase di maggior realismo il dramma liturgico era quindi ugualmente portato a circoscrivere nella musica II fattore trascendente e idealizzante, la cui presenza doveva perciò essere motivata dall’azione.
Interamente musicato è invece il Ludus Danielis di Beauvais (XII sec.), il quale si situa al primo stadio d’evoluzione del dramma liturgico. La storia di Daniele infatti non è altro che una derivazione dal primitivo Ordo prophetarum. Da questa Processione dei profeti si stacca la figura di Daniele che verso il 1140 ritroviamo protagonista dell’omonimo dramma del chierico Ilario, allievo di Abelardo. Ilario fu anche autore di un Lazarus, citato fra i primi esempi significativi di interpolazione di ritornelli in volgare nel latino della struttura di base. Qualche decennio dopo a Beauvais è rappresentato un altro Ludus Danielis, il più elaborato e musicalmente interessante tra i drammi tramandati sino a noi. Più che di lavoro anonimo si tratta di una creazione collettiva secondo quanto recita la quartina d’introduzione:

Ad honorem tui Christe
Danielis ludus iste
in Belvaco est inventus
et invenit hunc juventus

Gli studenti di Beauvais si basarono comunque sul precedente dramma di Ilario, come dimostra l’assunzione dell’episodio apocrifo dell’angelo che ammonisce il profeta Abacuc a soccorrere Daniele, portandogli da mangiare nella fossa dei leoni. Ispirati a Ilario sono probabilmente anche i pochi versi in volgare interpolati al testo latino, mentre l’impostazione drammatica vi risulta efficacemente accurata grazie alla varietà melodica e dei metri sapientemente dosati della prosa latina, orientata in modo chiaramente teatrale. Nei vari conductus, dove il coro stimola gli astanti commentando gli avvenimenti, il Danjou ha addirittura supposto che gli studenti di Beauvais si fossero rifatti all’antica tragedia. In realta era la stessa dimensione scenica ad esigere tale articolazione, come è il caso della musica abbondantemente arricchita dal suono degli strumenti, non espressamente indicati nella melodia superstite ma supposti dalle allusioni del testo.
L’aspetto sommario della notazione permette comunque di riconoscere la diversità dei materiali impiegati, che è tipica del contesto in cui veniva a collocarsi il dramma liturgico, per metà austero, in linea con la tradizione più ortodossa avvertibile nell’andamento melismatico del canto gregoriano che compare nei cori dei personaggi di corte, e per metà aperto alle suggestioni delle acquisizioni più recenti, nel livello del canto sillabico ormai apparentabile alle forme profane che della lingua latina non sviluppavano più la metrica basata sulla quantità, ma il principio degli accenti. Tale formulazione è chiaramente riscontrabile nei conductus cioè il canto che accompagnava una funzione cerimoniale quando l’officiante si spostava da un luogo all’altro della chiesa, e che nel Daniel, oltre ad annunciare le entrate dei vari personaggi, come termine è designato per la prima volta nella storia della musica. Fra i più interessanti figura il conductus che accompagna l’andata di Daniele al re, che, pur rispettando la suddivisione strofica, si svolge in modo articolato tra il coro dei principi e la voce sola del profeta. Un secondo conductus è basato sull’incipit della sequenza di San Nicola (“Congaudentes exultemus”), ad indicare come i procedimenti compositivi dell’epoca prevedessero la libera riutilizzazione dei materiali melodici, probabilmente con il preciso scopo di coinvolgere maggiormente il pubblico proponendogli melodie già familiari. E tale grado di coinvolgimento nel Ludus Danielis è proporzionale alla meraviglia indotta dalla mano misteriosa che traccia davanti al re le tre enigmatiche parole della profezia, dai leoni nella fossa e dalle apparizioni dell’angelo che da ultimo annuncia la nascita del Cristo, riportando l’emozione al contesto della festività che un dramma del genere era chiamato a condecorare.