"METODO", N. 24/2008
 

IL REGNO DELLA VIRTù E IL GOVERNO DEI FILOSOFI

Nel 250° anniversario della nascita del grande ed immortale rivoluzionario francese

 

ANTOLOGIA ROBESPIERRANA

 

 

Maximilen Robespierre (1758-1794)

Sui rapporti delle idee religiose e morali con i princìpi repubblicani

e sulle feste nazionali

 

 

Discorso pronunciato alla Convenzione il 18 floreale, anno II (7 maggio 1794) (Oeuvres de Maximilien Robespierre, Société des études robespierristes, Parigi, 1961-1967, a cura, fra gli altri, di Marc Bouloiseau, Georges Lefebvre e Albert Soboul, v. X, pp. 443-462); il testo italiano è in Maximilien Robespierre, La rivoluzione giacobina, a cura di Umberto Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 182-210.

 

 

Cittadini, è nella prosperità che i popoli – come gli individui – devono per dir così raccogliersi al fine di ascoltare, nel silenzio delle passioni, la voce della saggezza.

Il momento in cui il fragore delle nostre vittorie echeggia in tutto l’universo, è dunque quello stesso in cui i legislatori della Repubblica francese devono vegliare con rinnovata sollecitudine su se stessi e sulla patria e consolidare i princìpi sui quali deve poggiare la stabilità e la prosperità della Repubblica.

Noi stiamo per sottoporre alla vostra meditazione verità profonde, che attengono alla felicità degli uomini, e proporvi misure che ne scaturiscono logicamente.

Il mondo morale, assai più che il mondo fisico, appare pieno di contrasti e di enigmi. La natura ci dice che l’uomo è nato per la libertà, mentre l’esperienza dei secoli ci mostra l’uomo ridotto in schiavitù. I suoi diritti sono scritti nel suo cuore, ma la sua umiliazione nella storia. Il genere umano rispetta ancora Catone, ma si piega sotto il giogo di Cesare, onora la virtù di Bruto, ma non la ammette che nella storia antica. I secoli e la terra sono il retaggio del crimine e della tirannia; la libertà e la virtù si sono appena posate un istante su alcuni punti del globo: Sparta brilla come una luce in tenebre sconfinate...

Non sostengo tuttavia, o Bruto, che la virtù sia un fantasma! E voi, fondatori della Repubblica francese, guardatevi bene dal disperare dell’umanità, o di dubitare un momento solo del successo della vostra grande impresa!

Il mondo è cambiato: deve cambiare ancora.

Che cosa v’è di comune tra ciò che è oggi e ciò che fu? Le nazioni civili si sono succedute ai selvaggi erranti nei deserti; le fertili messi hanno preso il posto delle antiche foreste che coprivano il globo; un mondo è apparso al di là dei confini del mondo; gli abitanti della terra hanno aggiunto al loro immenso dominio anche i mari; l’uomo ha conquistato il fulmine e scongiurato il cielo.

Paragonate il linguaggio imperfetto dei geroglifici con il miracolo della stampa; raffrontate il viaggio degli Argonauti con quello di La Pérouse (1), misurate la distanza tra le osservazioni astronomiche dei magi dell’Asia e le scoperte di Newton, oppure tra lo schizzo tracciato dalla mano di Dibutade ed i quadri di David.

Tutto è cambiato nell’ordine fisico: tutto deve cambiare nell’ordine morale e politico. La prima parte della rivoluzione del mondo è già stata compiuta; ora deve compiersi l’altra metà.

La ragione dell’uomo rassomiglia ancora al globo ove egli abita: la metà è immersa nelle tenebre, quando l’altra è illuminata. I popoli dell’Europa hanno fatto progressi sbalorditivi in ciò che si chiama il campo artistico e scientifico, mentre sembra che ignorino perfino le nozioni prime della morale pubblica. Conoscono tutto, tranne i loro diritti e doveri.

A che cosa è dovuta questa mescolanza di ingegno e di stupidità? Al fatto che, per cercare di rendersi abile nelle arti, non si deve far altro che seguire le proprie passioni, mentre per difendere i propri diritti e rispettare quelli altrui occorre vincerle.

Vi è anche un’altra ragione: ed è questa: che i re, i quali hanno nelle loro mani il destino della terra, non temono né i grandi geometri né i grandi pittori né i grandi poeti, ma temono i filosofi rigorosi ed i difensori dell’umanità.

Tuttavia il genere umano è in uno stato di cose violento che non può essere duraturo. La ragione umana cammina da lungo tempo contro i troni a passi lenti e per strade oblique, ma sicure. L’ingegno minaccia il dispotismo anche quando sembra carezzarlo ed esso non è quasi più difeso se non dall’abitudine e dal terrore, e soprattutto dall’appoggio che gli presta la lega dei ricchi e di tutti gli oppressori subalterni spaventata dalla imponenza della rivoluzione francese.

Il popolo francese sembra aver sopravanzato di duemila anni il resto della specie umana; si sarebbe tentati di considerarlo, a paragone di essa, come una specie differente. L’Europa è in ginocchio dinanzi alle ombre di quei tiranni che noi puniamo.

In Europa un lavoratore, un artigiano sono degli animali ammaestrati per il piacere di un nobile; in Francia, i nobili cercano di trasformarsi in lavoratori ed in artigiani e non possono neppure ottenere questo onore.

L’Europa non concepisce che si possa vivere senza re, senza nobili; e noi che non si possa vivere con loro.

L’Europa prodiga il suo sangue per ribadire le catene dell’umanità; e noi per spezzarle.

I nostri sublimi vicini intrattengono l’universo con molta serietà sulla salute del re, sui suoi divertimenti, sui suoi viaggi; vogliono assolutamente insegnare alla posterità a che ora egli ha fatto colazione, in quale momento è tornato dalla caccia, qual è la terra fortunata che, ad ogni istante del giorno, ebbe l’onore di essere calpestata dai suoi augusti piedi; e quali sono i nomi degli schiavi privilegiati che sono apparsi alla sua presenza al levar del sole ed al tramonto.

Noi gli insegniamo, invece, i nomi e le virtù degli eroi morti combattendo per la libertà; gli insegniamo in quale terra gli ultimi sgherri dei tiranni hanno morso la polvere; gli insegniamo in quale ora è suonata la fine degli oppressori del mondo.

Sì, questa terra di delizie che noi abitiamo e che la natura carezza con predilezione è fatta per essere il regno della libertà e della felicità: questo popolo sensibile e fiero è veramente nato per la gloria e per la virtù.

O patria mia! Se il destino mi avesse fatto nascere in una contrada straniera e lontana, avrei rivolto al cielo continui voti per la tua prosperità; avrei versato lacrime di tenerezza al racconto delle tue battaglie e delle tue virtù; la mia anima attenta avrebbe seguito con un inquieto ardore tutti i movimenti della tua gloriosa rivoluzione; avrei invidiato la sorte dei tuoi cittadini, avrei invidiato quella dei tuoi rappresentanti...

O popolo sublime! Ricevi il sacrificio di tutto il mio essere. Felice colui che può morire per la tua felicità!

E voi, cui esso ha affidato i suoi interessi e la sua potenza, che cosa non potete mai fare voi con esso e per esso. Sì, voi potete mostrare al mondo lo spettacolo nuovo della democrazia affermata in un vasto impero.

Coloro che, nell’infanzia del diritto pubblico e nel fondo della schiavitù, hanno balbettato massime contrarie prevedevano i prodigi operati dopo un anno? E ciò che vi resta da fare è forse più difficile di quello che avete già fatto? E quali sono mai i politici che possono servirvi come precettori o come modelli? Non è forse vero che bisogna voi facciate precisamente tutto il contrario di quello che è stato fatto prima di voi? L’arte di governare è stata fino ai nostri giorni l’arte di ingannare e di corrompere gli uomini: ora non deve essere altro che quella di illuminarli e di renderli migliori.

Vi sono due specie di egoismi: l’uno vile, crudele, che isola l’uomo dai suoi simili, che cerca un benessere esclusivo acquistato con l’altrui miseria: l’altro generoso, benefico, che confonde la nostra felicità nella felicità di tutti, che lega la nostra gloria a quella della patria. Il primo crea gli oppressori e i tiranni; il secondo i difensori dell’umanità. Cerchiamo di seguire il suo impulso salutare: cerchiamo di amare teneramente il riposo acquistato con lavori gloriosi; cerchiamo di non temere la morte che li corona, e consolideremo così la felicità della nostra patria ed anche la nostra.

Il vizio e la virtù fanno i destini della terra: essi sono i due geni opposti che se la disputano. La sorgente dell’uno e dell’altra è nelle passioni dell’uomo. Secondo la direzione che viene data alle sue passioni, l’uomo, si eleva fino al cielo o affonda in abissi fangosi. Ora, il fine di tutte le istituzioni sociali è di dirigerle verso la giustizia, che è al tempo stesso la felicità pubblica e la felicità privata.

L’unico fondamento della società civile è la morale. Tutte le società che ci fanno la guerra riposano sul crimine: esse non sono – agli occhi della verità – che orde di selvaggi inciviliti e di briganti disciplinati.

A che cosa si riduce, dunque, tutta quella scienza misteriosa della politica e della legislazione? A mettere nelle leggi e nell’amministrazione le verità morali relegate nei libri dei filosofi e ad applicare alla condotta dei popoli le nozioni elementari di probità che ciascuno è costretto ad adottare per la sua condotta privata, cioè ad impiegare tanta abilità nel far trionfare la giustizia, quanta i governi ne hanno messa fin qui nell’essere ingiusti impunemente o con convenienza.

Così, osservate quanta abilità i re ed i loro complici hanno messo in opera per sfuggire all’applicazione di quei princìpi e per oscurare qualsiasi nozione di giusto e di ingiusto! Come era squisito il buonsenso di quel pirata, che rispose ad Alessandro: «Mi si chiama brigante perché non ho che una nave; mentre tu, perché hai una flotta, sei chiamato conquistatore!».

Con quale impudenza essi fanno leggi contro il furto quando invadono la fortuna pubblica! Si condannano gli assassini in loro nome, mentre essi assassinano milioni di uomini con la guerra e con la miseria. Sotto la monarchia, le virtù domestiche non sono che ridicolaggini: ma le virtù pubbliche sono dei crimini. La sola virtù è quella di essere lo strumento docile dei crimini del principe; il solo onore è quello di essere tanto malvagio quanto lui.

Sotto la monarchia è permesso di amare la propria famiglia, ma non la patria; è onorevole difendere i propri amici, ma non gli oppressi. La probità della monarchia rispetta tutte le proprietà, eccetto quelle del povero: essa protegge tutti i diritti, eccetto quelli del popolo.

Ecco un articolo del codice della monarchia:

«Tu non ruberai, a meno che tu non sia il re, o che tu non abbia ottenuto un privilegio dal re; tu non commetterai assassinio, a meno che tu non faccia perire d’un tratto molte migliaia di persone».

Voi conoscete quella frase ingenua del cardinale di Richelieu, scritta nel suo testamento politico, che i re devono astenersi con grande cura dal servirsi di gente onesta, perché essi non potranno trarne alcun partito. Più di duemila anni prima, sulle sponde del Ponto Eusino vi era un piccolo re che professava la stessa dottrina in una maniera ancor più energica. I suoi favoriti avevano con false accuse fatto mandare a morte alcuni dei loro amici. Egli se ne accorse: ed un giorno che uno di essi gli faceva una nuova delazione, gli disse: «Ti farei morire, se scellerati come te non fossero necessari ai despoti». Ci assicurano che quel principe era uno dei migliori che siano mai esistiti.

Ma è in Inghilterra che il machiavellismo ha spinto questa dottrina regale fino al più alto grado di perfezione.

Non dubito che vi siano a Londra molti mercanti che si piccano di avere una certa buona fede negli affari del loro commercio; ma si potrebbe scommettere che quelle oneste persone trovano molto naturale che i membri del parlamento britannico vendano pubblicamente al re Giorgio la loro coscienza ed i diritti del popolo, allo stesso modo in cui essi stessi vendono i prodotti delle loro fabbriche.

Pitt scorre dinanzi al parlamento la lista delle sue bassezze e dei suoi misfatti: «Tanto per il tradimento, tanto per gli assassini dei rappresentanti del popolo e dei patrioti, tanto per la calunnia, tanto per la carestia, tanto per la corruzione, tanto per la fabbricazione di falsa moneta». Il senato ascolta con un ammirevole sangue freddo ed approva il tutto con sottomissione.

Invano la voce di un uomo solo si leva con l’indignazione della virtù contro tanta infamia: il ministro confessa candidamente di non capire nulla di quei princìpi morali così strani per lui, e il senato respinge la mozione.

Stanhope (2), non chiedere ai tuoi indegni colleghi di darti atto della tua opposizione ai loro crimini; sarà la posteriorità a dartelo, e proprio la loro censura costituisce per te il miglior titolo per meritare la stima del tuo stesso secolo.

Che cosa dobbiamo concludere dunque da tutto quello che vi ho detto finora? Che l’immoralità è il fondamento del dispotismo, così come la virtù è l’essenza della Repubblica.

La rivoluzione, che mira a stabilirla, non è altro che il passaggio dal regno del crimine a quello della giustizia; di qui gli sforzi continui dei re alleati contro di noi e quelli di tutti i cospiratori, per perpetuare presso di noi i pregiudizi ed i vizi della monarchia.

Tutti quelli che rimpiangevano l’antico regime, tutti quelli che si erano lanciati nella lizza della rivoluzione con il solo fine di giungere ad un cambiamento di dinastia, si sono sforzati, fin dall’inizio, di arrestare i progressi della morale pubblica; e invero, che differenza c’era tra gli amici dell’Orléans o di York e quelli di Luigi XVI, se non forse che i primi avevano un più alto grado di ipocrisia?

I capi delle fazioni che divisero le due prime legislature – troppo abietti per credere nella Repubblica, troppo corrotti per desiderarla – non cessarono mai di cospirare al fine di cancellare dal cuore degli uomini i princìpi eterni che la loro politica li aveva all’inizio indotti a proclamare. La congiura si mascherava allora dietro la patina di quel moderatismo perfido che, proteggendo, il crimine ed uccidendo la virtù, ci riconduceva alla tirannia attraverso un sentiero obliquo ma sicuro.

Quando l’energia repubblicana seppe smascherare quell’abietto sistema e fondare la democrazia, allora l’aristocrazia e lo straniero elaborarono il piano di oltraggiare e corrompere ogni cosa. Si nascosero sotto le forme della democrazia, per disonorarla con capricci tanto funesti quanto ridicoli, e per soffocarla nel suo nascere.

L’attacco contro la libertà fu condotto sia per mezzo del moderatismo sia per mezzo del furore. In quell’urto delle due fazioni in apparenza opposte, ma i cui capi erano uniti da segreti legami, l’opinione pubblica era annientata, la rappresentanza avvilita, il popolo non contava più nulla; e la rivoluzione sembrava non esser altro che una battaglia ridicola per decidere a quali furfanti sarebbe rimasto il potere di dilaniare e di vendere la patria.

La linea dei capi di partito che sembravano più discordi fu press’a poco sempre la stessa. Il loro carattere principale fu sempre una profonda ipocrisia.

Lafayette invocava la Costituzione per risollevare il potere regale. Dumouriez invocava la Costituzione per proteggere la fazione girondina contro la Convenzione nazionale. Nell’agosto 1792 Brissot ed i girondini volevano fare della Costituzione uno scudo per parare il colpo che minacciava il trono. Nel gennaio seguente gli stessi cospiratori reclamavano la sovranità del popolo per strappare la monarchia all’obbrobrio del patibolo e per provocare la guerra civile nelle assemblee separatiste; Hébert e i suoi complici reclamavano la sovranità del popolo per soffocare la Convenzione nazionale ed annientare il governo repubblicano.

Brissot ed i girondini avevano voluto armare i ricchi contro il popolo; la fazione di Hébert, mentre proteggeva l’aristocrazia, blandiva il popolo per opprimerlo con le sue stesse mani.

Danton, il più pericoloso di tutti i nemici della patria, se non il più abietto; Danton, che ordina le trame di tutti i crimini, che era implicato in tutti i complotti, che prometteva la sua protezione agli scellerati e la sua fedeltà ai patrioti, abile nello spiegare le ragioni dei suoi tradimenti con il pretesto di tutelare l’ordine pubblico, nel giustificare i suoi vizi con le sue pretese imperfezioni, Danton faceva incolpare dai suoi amici i cospiratori che stavano per provocare la rovina della Repubblica, ma li faceva incolpare in un modo insignificante o ad essi favorevole, per avere poi l’occasione di difenderli lui stesso; transigeva con Brissot, in corrispondenza con Ronsin (3), incoraggiava Hébert, e traeva partito da ogni avvenimento per profittare in ugual misura della loro disgrazia e del loro successo e per raccogliere contro il governo repubblicano tutti i nemici della libertà.

È soprattutto in questi ultimi tempi che abbiamo visto svilupparsi in tutta la sua estensione il turpe sistema ordito dai nostri nemici per corrompere la morale pubblica; per riuscirvi ancor meglio, essi stessi se ne erano costituiti maestri. Andavano a diffamare tutto, a confondere tutto. Erano pronti a dir male di ogni cosa, a confondere ogni cosa, mediante una odiosa mescolanza tra la purezza dei nostri princìpi e la corruzione dei loro cuori.

Ogni furfante aveva usurpato una sorta di sacerdozio politico, per cui relegava nella classe dei profani i fedeli rappresentanti del popolo e tutti i patrioti. A quell’epoca ognuno tremava nel proporre un’idea giusta; era stato perfino interdetto al patriottismo, l’uso del buonsenso: e vi fu un momento in cui era proibito opporsi alla rovina della patria, a pena di essere tacciati di cattivi cittadini: il patriottismo non era nulla più che un travestimento ridicolo, oppure significava audacia di declamare contro la Convenzione.

Grazie a questo sovvertimento delle idee rivoluzionarie, l’aristocrazia, assolta da tutti i suoi crimini, tramava molto patriotticamente il massacro dei rappresentanti del popolo e la resurrezione della monarchia. Colmi dei tesori profusi dalla tirannia, i congiurati predicavano la povertà: affamati d’oro e di dominio, predicavano l’uguaglianza con insolenza, al fine di farla odiare. La libertà significava per essi l’incolumità del crimine; la rivoluzione era un traffico; il popolo soltanto uno strumento; la patria null’altro che una preda. Perfino quel poco di bene che essi si sforzavano di mettere in opera, era solo un perfido stratagemma per farci più agevolmente mali irreparabili. Se talvolta si mostravano severi, era per acquisire il diritto di poter poi favorire i nemici della libertà e di proscriverne gli amici.

Essi, che erano coperti di tutte le infamie, esigevano dai patrioti non soltanto che fosse riconosciuta loro l’infallibilità ma anche la garanzia da tutti i possibili capricci della fortuna, affinché nessuno fuor che loro, osasse più servire la patria. Tuonavano contro le speculazioni di borsa, e dividevano con gli speculatori il denaro pubblico; parlavano contro la tirannia, per poter servire meglio i tiranni.

I tiranni d’Europa si servirono di loro per accusare di tirannia la Convenzione nazionale. Non si poteva, certo, proporre al popolo di ristabilire la monarchia; ma volevano spingerlo a distruggere il proprio governo. Non si poteva, certo, dirgli che doveva chiamare al potere i suoi nemici: gli si diceva però che dovevano cacciar via i suoi difensori. Non si poteva, certo, dirgli di deporre le armi; ma lo si demoralizzava con false notizie; si minimizzavano i suoi successi, e si esageravano i suoi scacchi, con una colpevole malvagità,

Non si poteva, certo, dirgli: il figlio del tiranno, o qualsiasi altro Borbone, oppure uno dei figli di re Giorgio, ti renderebbe felice; ma gli si diceva: «tu sei infelice». Gli si tracciava il quadro della carestia che essi stessi cercavano di provocare; gli si diceva che le uova o lo zucchero non erano abbondanti.

Non gli si diceva che la sua libertà valeva pur qualcosa, che l’umiliazione dei suoi oppressori e tutti gli altri effetti della rivoluzione non erano affatto dei beni disprezzabili, e che esso doveva combattere ancora; e che solo la rovina dei suoi nemici avrebbe potuto assicurargli la felicità. Eppure il popolo tutto questo lo intuiva. In fin dei conti, essi non potevano asservire il popolo francese né con la forza né con il consenso; e cercavano allora di incatenarlo attraverso la sovversione, la rivolta, attraverso la corruzione dei costumi.

Essi hanno eretto l’immoralità non solo a sistema, ma addirittura a religione; hanno cercato di spegnere con il loro esempio e con i loro precetti tutti i sentimenti naturali più generosi.

Il malvagio vorrebbe di tutto cuore che sulla terra non restasse più una sola persona onesta, per non incontrare più nessun accusatore e per poter respirare in pace. Costoro andarono a frugare negli spiriti e nei cuori tutto quello che costituisce il fondamento della morale, per sradicarla e per soffocare l’invisibile accusatore che la natura vi ha nascosto.

I tiranni, soddisfatti dell’audacia dei loro emissari, si affrettarono a mostrare agli occhi dei loro sudditi le stravaganze che essi avevano portato; e, quanto a credere che fosse quello il popolo francese, sembravano dir loro: «Che cosa guadagnereste a scrollare il nostro giogo? Lo vedete: i repubblicani non valgono più di noi».

I tiranni nemici della Francia avevano escogitato un piano che avrebbe dovuto – se le loro speranze fossero state perfettamente appagate – incendiare d’un tratto la nostra Repubblica ed elevare una barriera insormontabile tra essa e gli altri popoli; i congiurati lo eseguirono. Gli stessi furfanti che avevano invocato la sovranità del popolo per distruggere la Convenzione nazionale presero a pretesto l’odio della superstizione per regalarci la guerra civile e l’ateismo.

Che cosa volevano mai coloro che – tra i cospiratori da cui erano circondati, proprio in mezzo agli ostacoli di una guerra così grande, e proprio nel momento in cui fumigavano ancora le torce della guerra civile – attaccarono all’improvviso con violenza ogni culto, per erigersi essi stessi ad apostoli focosi del nulla, e a missionari fanatici dell’ateismo? Qual era mai il motivo di quella grande operazione ordita – nelle tenebre della notte ed all’insaputa della Convenzione nazionale – da preti, da stranieri, e da cospiratori? Era quello l’amore di patria? Ma la patria ha già inflitto loro il supplizio che spetta ai traditori. Era forse odio verso i preti? Ma i preti erano loro amici. Era forse orrore del fanatismo? Ma era proprio il solo mezzo per fornire ad esso le armi. Era forse il desiderio di accelerare il trionfo della ragione? Ma se non si cessava di oltraggiarla con violenze assurde, con azioni stravaganti escogitate per renderla più odiosa: sembrava che la si relegasse nei templi soltanto per bandirla dalla Repubblica.

Si serviva la causa dei re alleati contro di noi, dei re che avevano essi stessi annunziato in precedenza questi avvenimenti e che ne approfittavano con successo per eccitare contro di noi il fanatismo dei popoli tramite manifesti e preghiere pubbliche. Bisogna vedere con quale collera santa il signor Pitt ci oppone questi fatti, e con quale cura il piccolo numero di persone integre che esistono nel parlamento d’Inghilterra li rigetta sopra alcune persone disprezzabili, già da voi sconfessate e punite.

Tuttavia, mentre costoro portavano a termine la loro missione, il popolo inglese digiunava per espiare i peccati stipendiati dal signor Pitt, e i borghesi di Londra portavano il lutto del mondo cattolico così come avevano portato quello del re Capeto e della regina Antonietta.

Ammirevole questa politica del re Giorgio, che faceva insultare l’Essere supremo da alcuni emissari e voleva vendicarlo con le baionette inglesi ed austriache!

Mi piace molto la pietà dei re, e credo fermamente alla religione del signor Pitt.

È certo, nondimeno, che egli ha trovato buoni amici in Francia; poiché, seguendo tutti i calcoli della prudenza umana, l’intrigo di cui parlo doveva eccitare un incendio rapido in tutta la Repubblica, e suscitare nuovi nemici all’estero.

Fortunatamente il genio del popolo francese, la sua immutabile passione per la libertà, la saggezza con cui avete avvertito i patrioti di buona fede che potevano essere trascinati dal pericoloso esempio degli ipocriti inventori di questa macchinazione; infine la cura che hanno preso i preti stessi di disingannare il popolo sul loro proprio conto, tutte quelle cause hanno prevenuto la più gran parte degli inconvenienti che i cospiratori si attendevano.

Spetta a voi di far cessare gli altri e di mettere a profitto, se è possibile, la perversità stessa dei nostri nemici per assicurare il trionfo dei princìpi e della libertà.

Consultate solo il bene della patria e gli interessi dell’umanità. Ogni istituzione, ogni dottrina che consola e che innalza le anime dev’essere accolta. Respingete tutte quelle che tendono a degradarla ed a corromperla. Risvegliate, esaltate tutti i sentimenti generosi e tutte le grandi idee morali che si sono volute spegnere; ravvicinate con il fascino dell’amicizia e con il legame della virtù gli uomini che si è voluto dividere.

E chi dunque ti ha dato la missione di annunciare al popolo che la divinità non esiste, o tu, che ti appassioni per questa dottrina arida e che non ti appassionasti mai per la patria?

Che vantaggio trovi nel persuadere l’uomo che una forza cieca presiede ai suoi destini e colpisce a caso il crimine e la virtù; che la sua anima non è che un soffio leggero che si spegne alla porta della tomba? L’idea del suo nulla gli ispirerà forse sentimenti più puri e più elevati, che non quella della sua immortalità? Gli ispirerà forse più rispetto per i suoi simili e per se stesso, più devozione per la patria, più audacia nello sfidare il tiranno, più disprezzo per la morte o per la voluttà?

Voi che rimpiangete un amico virtuoso, non preferite forse pensare che la parte migliore di lui sia sfuggita al trapasso? Voi, che piangete sulla bara di un figlio o di una sposa, siete forse consolata da colui che vi dice che di loro non resta più che vile polvere?

Infelici che spirate sotto i colpi di un assassino, il vostro ultimo sospiro è un appello alla giustizia eterna! L’innocenza sul patibolo fa impallidire il tiranno sul suo carro di trionfo: avrebbe essa forse questo ascendente se la tomba uguagliasse l’oppressore e l’oppresso?

Disgraziato sofista! Con quale diritto vieni tu a strappare all’innocente lo scettro della ragione per rimetterlo nelle mani del crimine, a gettare un velo funebre sulla natura, ad esasperare la sfortuna, a rallegrare il vizio, a rattristare la virtù, a degradare l’umanità?

Più un uomo è dotato di sensibilità e di ingegno, più si lega alle idee che ingrandiscono il suo essere ed innalzano il suo cuore; e la dottrina degli uomini di questa tempra diviene quella dell’universo.

E come! Quelle idee non sarebbero forse verità? Anche se ciò fosse, io non arrivo tuttavia a comprendere come la natura avrebbe potuto suggerire all’uomo finzioni più utili di qualsiasi realtà; e se l’esistenza di Dio e se l’immortalità dell’anima fossero anche solo dei sogni, tuttavia essi sarebbero ancora la più bella di tutte le concezioni dello spirito umano.

Non ho bisogno di osservare che non si tratta qui di fare il processo ad una opinione filosofica in particolare, né di contestare che il tale filosofo possa essere virtuoso, quali che siano le sue opinioni e spesso a dispetto di lui stesso, in forza di un carattere felice o di una ragione superiore; si tratta di considerare solamente l’ateismo come fatto nazionale e legato ad un sistema di cospirazione contro la Repubblica.

E che vi importano mai, legislatori, le ipotesi varie con cui certi filosofi spiegano i fenomeni della natura? Potete pure abbandonare queste cose alle loro dispute eterne: non è certo come metafisici, né come teologi, che dovete esaminarle. Agli occhi del legislatore, tutto ciò che è utile al mondo, e buono in pratica, è la verità.

L’idea dell’Essere supremo e dell’immortalità dell’anima è un richiamo continuo alla giustizia; essa è dunque sociale e repubblicana. La Natura ha messo nell’uomo il sentimento del piacere e del dolore, che lo costringe a fuggire gli oggetti fisici che gli sono nocivi, ed a cercare quelli che gli sono convenienti. Il capolavoro della società sarebbe di creare in lui, riguardo alle cose morali, un istinto rapido, che, senza il soccorso tardivo del ragionamento, lo portasse a fare il bene e ad evitare il male: poiché la ragione individuale di ciascun uomo, sviato dalle sue passioni, spesso non è che un sofista il quale difende la loro causa, e l’autorità dell’uomo. Ora, ciò che produce o sostituisce questo istinto prezioso, ciò che supplisce all’insufficienza dell’autorità umana, è il sentimento religioso che imprime nelle anime l’idea della sanzione data ai precetti della morale da una potenza superiore all’uomo,

Per questa ragione non ricordo che sia mai venuto in mente a nessun legislatore di nazionalizzare l’ateismo. So invece che anche i più saggi di loro si sono permessi addirittura di mescolare alla verità alcune finzioni, sia per colpire l’immaginazione dei popoli, sia per legarli più fortemente alle loro istituzioni. Licurgo e Solone fecero ricorso all’autorità degli oracoli, e Socrate stesso, per accreditare la verità dinanzi ai suoi concittadini, si ritenne obbligato a persuaderli che essa gli veniva ispirata da una divinità familiare.

Senza dubbio non dovrete concludere da ciò che bisogna ingannare gli uomini per istruirli; ma soltanto che voi siete fortunati di vivere in un secolo e in un paese di cui i lumi non vi lasciano altro compito da adempiere che quello di richiamare gli uomini alla natura ed alla verità.

Vi guarderete bene dallo spezzare il sacro legame che li unisce all’Autore del loro essere. È sufficiente anche il solo fatto che questa opinione abbia regnato presso un popolo, perché sia pericoloso distruggerla. Poiché, dato che i motivi dei doveri e le basi della moralità si sono legati in maniera necessaria a questa idea, il cancellarla sarebbe demoralizzare il popolo.

Risulta dallo stesso principio che non si deve mai attaccare un culto già stabilito, se non con prudenza e con una certa delicatezza, per timore che un cambiamento repentino e violento non sembri un attacco portato alla morale ed una dispensa dalla probità stessa.

Del resto, colui che potesse trovare nel sistema sociale un surrogato alla divinità, mi apparirebbe un prodigio di genio; ma colui che senza averla sostituita pensasse solo a bandirla dallo spirito degli uomini, mi sembrerebbe un prodigio di stupidità o di perversità.

Che cosa mai i congiurati avevano messo al posto di ciò che distruggevano? Nulla, se non il caos, il vuoto e la violenza. Essi disprezzavano troppo il popolo per prendersi la pena di persuaderlo; invece di illuminarlo, volevano solo irritarlo; sgomentarlo o depravarlo.

Se i princìpi che ho esposto fin qui sono errori, almeno mi sbaglio assieme a tutto ciò che il mondo intero venera.

Prendiamo qui lezioni dalla storia. Osservate, vi prego, come gli uomini che hanno influito sul destino degli Stati furono determinati verso l’uno o l’altro dei due opposti sistemi, dal loro carattere personale e dalla stessa natura delle loro vedute politiche. Osservate con quale arte profonda Cesare, difendendo nel senato romano i complici di Catilina, si allontana in una digressione contro il dogma dell’immortalità dell’anima, tanto quelle idee gli sembravano idonee a spegnere nel cuore dei giudici l’energia della virtù, tanto la causa del crimine gli appariva legata a quella dell’ateismo. Cicerone, al contrario, invocava contro i traditori sia la spada delle leggi sia il fulmine degli dei.

Socrate morente intrattiene i suoi amici sull’immortalità dell’anima. Leonida alle Termopili, cenando con i suoi compagni d’arme, al momento di mandare ad esecuzione il proposito più eroico che la virtù umana abbia mai concepito, li invita per l’indomani ad un altro banchetto in una nuova vita.

Ve ne corse tra Socrate e Chaumette (4)  e tra Leonida e il Père Duchesne (5).

Uno scellerato, una persona disprezzabile ai suoi propri occhi, e orribile a quelli altrui, avverte che la natura non può fargli regalo più bello che il nulla.

Catone non tentennò affatto tra Epicuro e Zenone. Bruto così come gli illustri congiurati che condivisero i suoi rischi e la sua gloria apparteneva anche egli a quella sublime setta degli stoici; che ebbe idee così alte della dignità dell’uomo, che spinse così lontano l’entusiasmo e la virtù, e che non esagerò nulla se non l’eroismo. Lo stoicismo partorì degli emuli di Bruto e di Catone fino nei secoli orribili che seguirono la perdita della libertà romana. Lo stoicismo salvò l’onore della natura umana degradata dai vizi dei successori di Cesare e soprattutto dalla pazienza dei popoli.

La setta epicurea invece raccoglieva senza dubbio tutti gli scellerati che opprimevano la loro patria e tutti i dissoluti che la lasciavano opprimere. Così, anche se il filosofo di cui essa portava il nome non fosse personalmente un uomo disprezzabile, i princìpi del suo sistema, interpretati dalla corruzione, condussero a conseguenze così funeste, che l’antichità stessa la diffamò con il titolo di «gregge di Epicuro». E dato che in tutti i tempi il cuore umano è nel profondo sempre lo stesso, e che lo stesso istinto e lo stesso sistema politico ha comandato agli uomini lo stesso cammino, sarà facile applicare queste osservazioni al momento attuale, e persino al tempo che ha preceduto immediatamente la nostra rivoluzione.

È bene gettare un colpo d’occhio su quel tempo, non foss’altro che per poter spiegare una parte dei fenomeni che si sono manifestati dopo.

Da lungo tempo gli osservatori illuminati potevano scorgere alcuni sintomi dell’attuale rivoluzione. Tutti gli avvenimenti importanti vi tendevano; le cause stesse dei particolari suscettibili di qualche esplosione si riallacciavano ad un intrigo politico.

Gli uomini di lettere rinomati, grazie alla loro influenza sull’opinione pubblica cominciavano ad ottenerne qualcuna anche negli affari. I pìù ambiziosi avevano formato fin da allora una specie di coalizione che aumentava la loro importanza; essi sembravano essere divisi in due sette di cui l’una difendeva stupidamente il clero e il dispotismo. La più potente e la più illustre era quella conosciuta sotto il nome di «enciclopedisti». Essa conteneva alcune persone stimabili ed un numero, ben più vasto, di ciarlatani. Molti dei suoi capi erano divenuti personaggi considerevoli nello Stato: chiunque avesse ignorato la sua influenza e la sua politica non avrebbe un’idea completa delle premesse della nostra rivoluzione.

Questa setta, in materia politica, rimase al di sotto dei diritti del popolo: in materia morale, andò molto al di là della distruzione dei pregiudizi religiosi. I suoi corifei declamavano talvolta contro il dispotismo, ma erano pensionati dai despoti; facevano alternativamente ora libri contro la corte, ora dediche ai re, discorsi per i cortigiani e madrigali per le cortigiane; erano fieri nei loro scritti, ma striscianti nelle anticamere.

Questa setta propagò con molto zelo l’opinione del materialismo che prevalse tra i grandi e tra i begli spiriti. Si deve ad essa in gran parte quella specie di filosofia pratica che, riducendo l’egoismo a sistema, vede la società umana come una guerra di astuzia, il successo come il criterio del giusto e dell’ingiusto, la probità come un affare di gusto o di decenza, il mondo come il patrimonio dei furfanti più scaltri.

Ho detto che i suoi corifei erano ambiziosi. Le agitazioni che annunciavano un grande cambiamento nell’ordine politico delle cose avevano potuto estendere le loro prospettive. Si è osservato che molti di loro avevano intimi legami con la casa d’Orléans, e la Costituzione inglese era – secondo loro – il capolavoro della politica ed il massimo della felicità sociale.

Tra quelli che, nel tempo di cui parlo, si segnalarono nella carriera delle lettere e della filosofia, un uomo (6) si dimostrò degno, per l’elevatezza della sua anima e per la grandezza del suo carattere, del ministero di precettore del genere umano. Attaccò la tirannia con tutta franchezza; parlò con entusiasmo della divinità; la sua eloquenza virile ed onesta dipinse con tratti infuocati il fascino della virtù, e difese quei dogmi consolatori che la ragione dà come appoggio al cuore umano. La purezza della sua dottrina, attinta al profonde, della natura e all’odio profondo verso il vizio, e il suo disprezzo invincibile verso i sofisti intriganti che usurpavano il nome di filosofi, gli attirarono l’odio e la persecuzione dei suoi rivali e dei suoi falsi amici.

Ah, se egli fosse stato testimone di questa rivoluzione di cui egli fu il precursore, e che l’ha portato al Pantheon, chi potrebbe mai dubitare che la sua anima generosa avrebbe abbracciato con trasporto la causa della giustizia e dell’uguaglianza?

Ma che cosa hanno fatto per essa i suoi dissoluti avversari? Essi hanno combattuto la rivoluzione, da quando hanno temuto che essa potesse elevare il popolo al di sopra di tutte le vanità particolari; gli uni hanno prodigato tutto il loro ingegno per sofisticare i princìpi repubblicani e per cor rompere l’opinione pubblica; e si sono prostituiti alle fazioni, soprattutto a quella del partito d’Orléans; gli altri si sono rinchiusi in una vile neutralità.

In generale gli uomini di lettere si sono disonorati durante questa rivoluzione; e la ragione del popolo ne ha fatto essa sola tutte le spese, ad eterno disonore dello spirito.

Uomini piccoli e vuoti, arrossite se è possibile. I prodigi che hanno immortalato quest’epoca della storia umana sono stati operati senza di voi, o vostro malgrado. Il buonsenso senza intrigo e l’ingegno senza istruzione hanno portato la Francia a quel grado di elevatezza che spaventa la vostra bassezza e che schiaccia la vostra nullità.

Un artigiano si è dimostrato capace della conoscenza dei diritti dell’uomo, laddove un autore di libri, pressoché repubblicano nel 1788, difendeva stupidamente la causa dei re nel 1793. Un semplice lavoratore divulgava nelle campagne la luce della filosofia, laddove l’accademico Condorcet (7), già grande geometra – si dice, a giudizio dei letterati – e grande letterato – a detta dei geometri – poi timido cospiratore, disprezzato da tutti i partiti, lavorava senza sosta ad oscurare quella luce, con il perfido guazzabuglio delle sue mercenarie rapsodie.

Senza dubbio, siete stati già colpiti dalla tenerezza con cui tante persone – che hanno tradito la loro patria – hanno accarezzato le sinistre opinioni che qui combatto. E quali accostamenti curiosi possono ancora offrirsi al vostro spirito! Abbiamo inteso, così – e chi potrebbe mai credere a questo eccesso di spudoratezza? – abbiamo inteso il traditore Guadet denunciare presso una società popolare un cittadino per aver pronunciato il nome della Provvidenza. Abbiamo inteso, qualche tempo dopo, Hébert accusare un altro cittadino per aver scritto contro l’ateismo.

E non sono forse Vergniaud e Gensonné che – alla vostra stessa presenza ed alla vostra tribuna – perorarono con calore per bandire dal preambolo della Costituzione il nome dell’Essere supremo che voi vi avevate messo? E Danton, che sorrideva di compassione alle parole di virtù, gloria, posterità; Danton, il cui sistema era quello di avvilire tutto ciò che può elevare l’anima; Danton, che era freddo e muto durante i più grandi pericoli della libertà, parlò, dopo di loro, con molta veemenza in favore della stessa opinione.

Da dove viene mai questo singolare accordo di principio tra persone che sembravano così discordi? Bisogna attribuirlo semplicemente alla cura – che avevano tutti i disertori della causa del popolo – di cercar di coprire la loro defezione affettando uno zelo contro quelli che essi chiamavano pregiudizi religiosi, come se avessero voluto compensare la propria indulgenza per l’aristocrazia e per la tirannia con la guerra che essi dichiararono alla divinità?

No, la condotta di quei personaggi artefatti tendeva senza alcun dubbio a mire politiche più profonde; essi avvertivano in se stessi che per distruggere la libertà occorreva favorire con ogni mezzo tutto ciò che tende a giustificare l’egoismo, ad inaridire il cuore e a cancellare l’idea di quel bene morale, che è l’unica regola sulla quale la pubblica ragione giudica i difensori ed i nemici dell’umanità. Essi abbracciavano con trasporto un sistema che, confondendo il destino dei buoni e dei cattivi, non lascia altra differenza tra essi che i favori incerti della fortuna, né altro arbitro che il diritto del più forte o del più scaltro.

Ma voi tendete ad uno scopo ben diverso; e quindi seguirete una politica diversa.

Ma non temiamo forse – con questo – di risvegliare il fanatismo e di dare un vantaggio all’aristocrazia? No, se adottiamo il partito che la saggezza ci indica, ci sarà facile evitare questo scoglio.

Nemici del popolo, chiunque voi siate, la Convenzione nazionale non favorirà mai la vostra perversità. Aristocratici, di qualunque specioso paludamento vogliate oggi ricoprirvi, invano cercherete di approfittare della nostra censura contro gli autori di una trama criminale, per accusare i patrioti sinceri che il solo odio del fanatismo può aver trascinato a passi inopportuni. Voi non avete il diritto di accusare; e la giustizia nazionale – nelle tempeste eccitate per mezzo delle fazioni – sa discernere gli errori dalle cospirazioni vere e proprie: ed essa afferrerà, con mano sicura, tutti i perversi intriganti, e non colpirà neppure uno solo degli uomini buoni.

Fanatici, non sperate nulla da noi. Richiamare gli uomini al culto per l’Essere supremo è portare un colpo mortale proprio al fanatismo. Tutte le finzioni spariscono dinanzi alla Verità e tutte le follie piegano il ginocchio dinanzi alla Ragione. Senza violenza, senza persecuzione, tutte le sette devono confondersi da se stesse nella religione universale della Natura.

Noi vi consiglieremo dunque di mantenere quei princìpi che avete manifestato finora. Che sia rispettata la libertà dei culti per il trionfo stesso della Ragione; ma che essa non turbi l’ordine pubblico e non divenga un mezzo di cospirazione. Se la malvagità controrivoluzionaria si nascondesse sotto quel pretesto, allora reprimetela; e per il resto, riposate sulla potenza dei princìpi e sulla forza stessa insita nelle cose.

Preti ambiziosi, non attendetevi che noi lavoriamo per ristabilire il vostro dominio; una simile impresa sarebbe perfino al di sopra del nostro potere. Perché voi vi siete uccisi da voi stessi, e non è dato risuscitare qualcuno alla vita morale, più che non sia dato restituirlo alla vita fisica.

E d’altronde che rapporto c’è mai tra i preti e Dio? I preti stanno alla morale come i ciarlatani stanno alla medicina. Quanto è diverso il Dio della natura dal Dio dei preti! Egli non conosce nulla di così somigliante all’ateismo quanto le religioni che essi hanno costruito. A forza di sfigurare l’immagine dell’Essere supremo, essi lo hanno annientato, per quanto potevano; ne hanno fatto ora un globo di fuoco, ora un bue, ora un albero, ora un uomo, ora un re. I preti hanno creato Dio a loro immagine: l’hanno creato geloso, capriccioso, avido, crudele, implacabile. L’hanno trattato come già i maggiordomi di palazzo trattarono i discendenti di Clodoveo (8), per regnare sotto il suo nome e mettersi al suo posto. Essi lo hanno relegato nel cielo come in un palazzo, e non l’hanno chiamato sulla terra se non per chiedere a loro profitto, in suo nome, decime, ricchezze, onori, piaceri e potenza.

Il vero prete dell’Essere supremo è la Natura; il suo tempio, l’Universo; il suo culto, la Virtù, le sue feste, la gioia di un grande popolo riunito sotto i suoi occhi per rinsaldare i dolci legami della fraternità universale, e per presentargli l’omaggio dei cuori sensibili e puri.

Preti, con quali titoli mai avete provato la vostra missione? Siete forse stati mai più giusti, più modesti, più amici della verità, che non gli altri uomini? Avete forse amato l’uguaglianza, difeso i diritti dei popoli, aborrito il dispotismo ed abbattuto la tirannia? Ma siete stati proprio voi che avete detto ai re: «Voi siete le immagini di Dio sulla terra; è da lui che avete ricevuto il vostro potere». Ed i re vi hanno risposto: «Sì, voi siete veramente gli inviati da Dio: uniamoci per dividere le spoglie e l’adorazione dei mortali». Lo scettro ed il turibolo hanno cospirato per disonorare il cielo e per usurpare la terra.

Ma lasciamo stare i preti e torniamo alla divinità. Dobbiamo vincolare la morale su basi eterne e sacre; dobbiamo ispirare all’uomo quel rispetto religioso per l’uomo, quel sentimento profondo dei suoi doveri, che è la sola garanzia della felicità sociale; dobbiamo nutrirlo con tutte le nostre istituzioni: e che l’educazione pubblica sia diretta soprattutto verso quello scopo.

Voi gli imprimerete senza alcun dubbio un grande carattere, omogeneo alla natura del nostro governo ed alla sublimità dei destini della nostra Repubblica. Voi sentirete la necessità di renderlo comune ed eguale per tutti i francesi.

Non si tratta più di formare dei «signori», ma dei cittadini; la patria ha essa sola il diritto di educare i suoi figli: essa non può affidare quell’incarico all’orgoglio delle famiglie, né ai pregiudizi degli individui singoli, eterni alimenti dell’aristocrazia e di un federalismo domestico, che restringe le anime, isolandole, e distrugge – assieme all’uguaglianza – tutti i fondamenti dell’ordine sociale: ma questo grandioso argomento è estraneo alla presente discussione.

Vi è tuttavia una sorta di istituzione che dev’essere considerata come una parte essenziale dell’educazione pubblica, e che appartiene di necessità all’argomento di questo mio rapporto. Voglio alludere alle feste nazionali.

Riunite gli uomini e li renderete migliori: poiché gli uomini riuniti cercheranno di piacersi l’un l’altro e non potranno piacersi se non facendo cose che li rendono stimabili. Date alle loro riunioni un grande movente morale e politico e l’amore delle cose oneste entrerà in tutti i cuori assieme al piacere; poiché gli uomini si vedono sempre con piacere.

L’uomo è il più grande oggetto che ci sia nella natura; e il più bello di tutti gli spettacoli è quello di un gran popolo riunito.

Non si parla mai senza entusiasmo delle feste nazionali della Grecia: e tuttavia esse avevano per oggetto soltanto dei giochi, dove rifulgevano la forza del corpo, la destrezza, o, tutt’al più, il talento dei poeti e degli oratori. Ma la Grecia intiera era là e si assisteva ad uno spettacolo più grande degli stessi giochi: ed erano gli spettatori stessi. Era il popolo vincitore sull’Asia, che le virtù repubblicane avevano elevato talvolta al di sopra della stessa umanità. Si notavano gli uomini grandi che avevano salvato ed illustrato la patria: i padri mostravano ai loro figli Milziade, Aristide, Epaminonda, Timoleone, la sola presenza dei quali era una lezione vivente di magnanimità, di giustizia e di patriottismo.

Quanto sarebbe facile – per il popolo francese – dare alle nostre assemblee una motivazione più vasta ed un carattere più grande! Un sistema ben impostato costituirebbe al tempo stesso il più dolce legame di fraternità ed il mezzo più potente per una rigenerazione.

Dovreste avere feste generali più solenni, valide per tutta la Repubblica: dovreste avere feste particolari e per ogni singola località, le quali siano giorni di riposo, e possano sostituire tutto quello che gli avvenimenti hanno distrutto.

Fate che tutte tendano a risvegliare i sentimenti generosi che costituiscono il fascino e l’ornamento della vita umana, l’entusiasmo della libertà, l’amore della patria, il rispetto delle leggi. E fate che la memoria dei tiranni e dei traditori sia in esse votata all’esecrazione; che quella degli eroi della libertà e dei benefattori dell’umanità riceva in esse il giusto tributo della pubblica riconoscenza; e che esse rivolgano il loro interesse – i loro stessi nomi – agli avvenimenti immortali della nostra rivoluzione ed agli oggetti più sacri e più cari al cuore umano; che esse siano abbellite e contraddistinte con emblemi omogenei al loro oggetto particolare.

Dobbiamo invitare alle nostre feste la Natura e tutte le Virtù e fare in modo che tutte siano celebrate sotto gli auspici dell’Essere supremo: che esse gli siano tutte consacrate; che esse si aprano e si concludano con un omaggio alla sua potenza ed alla sua bontà.

E sarai tu a dare il tuo nome sacro ad una delle nostre feste più belle, tu, figlia della Natura! tu, madre della felicità e della gloria! tu, sola legittima sovrana del mondo, che fosti detronizzata dal crimine. Tu, alla quale il popolo francese ha restituito il tuo dominio, ed al quale dai in cambio una patria e buoni costumi, tu, o augusta Libertà!

E dividerai i nostri sacrifici con la tua compagna immortale, la dolce e santa Uguaglianza.

Festeggeremo l’umanità, l’umanità avvilita e calpestata dai nemici della Repubblica francese! Sarà proprio un bel giorno quello in cui celebreremo la festa del Genere umano: vi sarà un banchetto fraterno e sacro, dove, dal seno della vittoria, il popolo francese inviterà la immensa famiglia della quale egli solo difende l’onore ed i diritti imprescrittibili.

Celebreremo parimenti tutti i grandi uomini – di ogni tempo e di ogni paese – che hanno liberato la loro patria dal giogo dei tiranni, e che hanno fondato con leggi giuste la libertà. E voi non sarete affatto dimenticati, voi, martiri illustri della Repubblica francese! E non sarete dimenticati neppure voi, eroi che siete morti combattendo per essa: e chi mai potrebbe dimenticare gli eroi della mia patria?...

La Francia deve ad essi la propria libertà: e così l’universo dovrà ad essi la sua. Che l’universo celebri dunque al più presto la loro gloria, dato che gode dei loro benefici.

Quanti sono mai i nomi degni di essere iscritti nelle feste della storia, che dimorano ancora avviluppati nell’oscurità! O Mani sconosciuti e venerati, se voi sfuggite alla celebrità, non sfuggirete alla nostra tenera riconoscenza.

E allora tremino tutti i tiranni armati contro la libertà, se ancora ne esisteranno! Tremino nel giorno in cui i francesi verranno a visitare le vostre tombe, giurando di imitarvi!

Giovani francesi, udite l’immortale Barra, che dal Pantheon vi chiama alla gloria? Venite dunque a spargere fiori sulla sua tomba sacra. Barra, o figlio eroico, tu nutristi tua madre e sei morto per la Patria (9)! Barra, tu hai già ricevuto il premio per il tuo eroismo: la patria ha adottato tua madre; e la patria stessa, dopo aver soffocato le fazioni criminali, sta per innalzarsi trionfante sulle rovine e sui vizi dei troni.

O Barra, tu non hai trovato modelli nell’antichità, ma hai trovato tra di noi emuli della tua virtù.

E per quale mai fatalità, o per quale mai ingratitudine si è lasciato nella dimenticanza un eroe ancor più giovane e degno degli omaggi della posterità? I marsigliesi ribelli, riuniti sugli argini della Durance, si preparavano a passare quel fiume per andare ad uccidere i patrioti deboli e disarmati di quelle infelici contrade. Ed una schiera poco numerosa di repubblicani, riuniti dall’altro lato, non vedeva altro mezzo se non quello di tagliare le corde dei pontoni che erano in potere dei loro nemici: ma tentare una tale impresa in presenza dei grossi battaglioni che coprivano l’altra riva, e proprio a portata di tiro dei fucili, appariva un’impresa chimerica perfino ai più arditi. D’un tratto un fanciullo di tredici anni (10) si slancia su una scure, vola alla riva del fiume e con tutta la sua forza colpisce la gomena. Molte scariche di fucileria vengono dirette contro di lui, ma egli continua a colpire con colpi raddoppiati. Infine è raggiunto da un colpo mortale. Egli grida: «Io muoio, ma non fa nulla: è per la libertà». Cade: è morto!...

O ammirevole fanciullo, la patria sia orgogliosa di averti dato la luce! E con quale orgoglio la Grecia e Roma avrebbero onorato la tua memoria, se avessero saputo partorire un eroe come te!

Cittadini, dobbiamo portare con tutta la pompa possibile le sue ceneri al tempio della gloria: e la Repubblica in lutto le bagni di lacrime amare!

Ma no; non piangiamolo; imitiamolo, invece! Vendichiamolo con la rovina di tutti i nemici della nostra Repubblica!

Tutte le virtù si disputino il diritto di presiedere alle nostre feste.

Dobbiamo istituire la festa della Gloria: non già di quella che devasta ed opprime il mondo; bensì di quella che lo libera, che lo illumina e che lo consola; di quella che, dopo la patria, è il primo idolo dei cuori generosi.

E dobbiamo pure istituire una festa commovente: la festa della Sfortuna. Gli schiavi adorano la fortuna ed il potere: noi onoriamo la Sfortuna, la Sfortuna che l’umanità non può bandire interamente dalla terra, ma che essa consola ed allevia con rispetto.

E anche tu otterrai parimenti questo omaggio, tu, che già un tempo univi gli eroi ed i sapienti! Tu, che moltiplichi le forze degli amici della patria e della quale i malvagi, tenuti legati dal crimine, non conobbero mai se non il simulacro impostore; tu, divina amicizia, tu ritroverai presso i francesi repubblicani la tua potenza ed i tuoi altari.

E perché mai non renderemmo lo stesso onore all’Amore pudico e generoso, alla fedeltà coniugale, alla tenerezza paterna e filiale?

Fuori di ogni dubbio, le nostre feste non saranno prive di interesse né senza splendore. Poiché vi interverrete voi, o bravi difensori della patria, che siete decorati da gloriose cicatrici. Vi interverrete voi, o venerabili vecchi, che la felicità preparata alla vostra posterità deve consolare della vostra lunga vita passata sotto il dispotismo. Vi interverrete voi, o teneri discepoli della patria, che crescete per estendere la sua gloria e per raccogliere il frutto delle nostre fatiche.

E vi interverrete voi, o giovani cittadine, cui la vittoria deve ricondurre ben presto fratelli ed amanti degni di voi. E vi interverrete voi, o madri di famiglia, i cui sposi ed i cui figli innalzano trofei alla Repubblica con gli avanzi dei troni.

Donne francesi, amate la libertà acquistata al prezzo del loro sangue! Servitevi della vostra influenza per estendere quella delle virtù repubblicane! Donne francesi! Voi siete degne dell’amore e del rispetto di tutta la terra! Che cosa avete mai da invidiare alle donne di Sparta? Come quelle, anche voi avete dato la luce ad eroi; come quelle, voi li avete consacrati, con un sublime olocausto, alla patria!

Guai a colui che cerca di spegnere questo sublime entusiasmo e di soffocare, con dottrine desolanti, quell’istinto morale del popolo, che è il fondamento di tutte le azioni magnanime.

È a voi, o rappresentanti del popolo, che spetta di far trionfare, quelle verità che noi abbiamo or ora sviluppato. Dovete saper sfidare i clamori insensati dell’ignoranza presuntuosa o della perversità ipocrita.

Ma qual è, dunque, la depravazione dalla quale eravamo circondati se ci è venuto meno perfino il coraggio di proclamare quelle verità?

La posterità potrà forse mai credere che le fazioni vinte avevano spinto la loro impudenza fino ad accusarci di moderatismo e di aristocrazia, per il solo fatto di aver richiamato l’idea della divinità e della morale? E come potrà mai essa credere a quello che si è osato dire, perfino in questa stessa sala, che noi abbiamo con questo risospinto indietro la ragione umana di molti secoli? E la invocano proprio loro la ragione, loro, i mostri che aguzzavano contro di voi i loro pugnali sacrileghi!

Senza alcun dubbio, tutti coloro che difendevano i vostri princìpi e la vostra dignità dovevano essere anche gli oggetti del loro furore.

E non meravigliamoci se tutti gli scellerati, alleati contro di voi, sembrano voler prepararci la cicuta. Ma, prima di berla, noi salveremo la patria!

La nave che conduce la fortuna della Repubblica non è destinata a fare naufragio: essa avanza sotto i vostri auspici, e le tempeste saranno costrette a rispettarla.

Riposatevi dunque tranquillamente sulle basi immutabili della giustizia e ravvivate la morale pubblica. Fate cadere il tuono sulla testa dei colpevoli; e lanciate il fulmine contro i vostri nemici.

E qual è mai l’insolente che, dopo aver strisciato ai piedi di un re, oserà insultare la maestà del popolo francese nella persona dei suoi rappresentanti?

Comandate alla vittoria, ma soprattutto dovete risospingere il vizio nel nulla.

I nemici della Repubblica sono tutti gli uomini corrotti. Il patriota non è altro che un uomo probo e magnanimo, in tutta la pienezza di questo termine.

È ancora poco annientare i re: quello che bisogna fare è far rispettare a tutti i popoli il carattere del popolo francese.

Sarà vano per noi portare in capo al mondo la rinomanza delle nostre armi, se tutte le passioni dilaniano impunemente il seno della nostra patria. Dobbiamo diffidare perfino dell’ebbrezza del successo.

Dobbiamo essere terribili negli insuccessi, modesti nei nostri trionfi; e stabilire in mezzo a noi la pace e la felicità per mezzo della saggezza e della morale. Ecco dunque il vero scopo delle nostre fatiche: ecco l’impresa più eroica e più difficile (11).

 

 

Il testo integrale in francese – completo del decreto relativo al culto dell’Essere supremo e alle feste nazionali – è in: http://membres.lycos.fr/discours/morale.htm

 

 

Note

(1) Navigatore francese del XVIII secolo.Torna

(2) Si tratta dello scrittore Charles Stanhope, uno dei leader dei whigs.Torna

(3) Ronsin era uno degli esponenti del club dei cordelieri, e generale nell’esercito rivoluzionario.Torna

(4) Chaumette fu uno tra i più accesi propagandisti della scristianizzazione. Fu procuratore generale, sindaco, e poi rappresentante nazionale alta Comune di Parigi.Torna

(5) È il giornale di Hébert.Torna

(6) Allusione a Jean-Jacques Rousseau, di cui Robespierre si considerava discepolo.Torna

(7) Il Condorcet, già amico dei girondini, aveva preparato un primo progetto di Costituzione prima del 2 giugno 1793.Torna

(8) Sotto gli ultimi Merovingi i maggiordomi di palazzo si impadronirono del potere.Torna

(9) Il giovane venne massacrato dagli insorti della Vandea. Fatto prigioniero, gli fu chiesto di gridare «Viva il re»; ma egli aveva gridato «Viva la repubblica».Torna

(10) Si tratta di Agricol Viala: il suo corpo venne gettato dai realisti nella Durance. Egli fu onorato poi in tutte le scuole della Repubblica.Torna

(11) Segue quindi il progetto del decreto relativo al culto dell’Essere supremo e alle feste nazionali.Torna