"METODO", N. 16/2000

Marco Tangheroni
(Università di Pisa – Facoltà di Lettere e Filosofia)
IL FASCINO DISCRETO DELLE CARTE: DALLA SCOPA AL BRIDGE

Sono stato un giocatore accanito, di ogni tipo di gioco. Anche di quelli da tavolo classici, s'intende: il Monopoli, naturalmente, ma pure Carriere o il poco diffuso Totopoli, ambientato nel mondo delle corse dei cavalli. Ho misurato la mia erudizione in interminabili partite di Trivial Pursuit, esponendomi a figuracce proprio nelle domande di "storia", cioè nella mia disciplina professionale. Ho fatto l'investigatore con Cluedo. Mi sono annoiato con Risiko: quando il carissimo amico Attilio mi costringeva a giocarlo, adottavo sempre la stessa strategia: gettare subito tutte le forze in un'unica decisiva battaglia-suicida. Ancor più mi sono annoiato col macchinoso e faticoso Subbuteo. Non poche sono state le partite di Jazzy, nelle quali davo la colpa al dado se perdevo e il merito alla mia strategia se vincevo.
In anni lontani ho avuto la fortuna di giocare belle partite di Mahjong con le splendide tessere di legno che risalivano alla giovinezza di mia madre (anni Trenta). Mi sono applicato con passione ed impegno agli scacchi, con scarsi risultati, nonostante le molte (e affascinanti) letture; ora mi contento di qualche partita contro il computer, ma mi mancano troppo le quotidiane partite con il collega col quale dividevo l'appartamento sassarese negli anni del mio insegnamento in Sardegna. Sono un appassionato di tric-trac (gioco caro al Machiavelli), avendolo conosciuto, prima che ci ritornasse di rimbalzo, con l'orribile nome di backgammon, dagli Stati Uniti, grazie al nonno di mia moglie, italo-egiziano, e fondatore del Napoli. Mi piace giocare veloce, battendo forte con le pedine. Ho fatto anche una partita nel "souk" del Cairo, dove lo giocano per la strada, davanti alle botteghine.
Non credo di avere sottratto poi tanto tempo ai miei impegni civici, culturali, didattici, giocando tanto. Credo, anzi, che le ore di gioco, rasserenandomi, rigenerandomi, mi abbiano consentito di assolverli al meglio, nell'ambito dei miei limiti, s'intende. Anche perché ho fuggito gli war-game di livello elevato, come Il signore degli anelli o La terza guerra mondiale, troppo lunghi per non nuocere alle mie attività più doverose.
A carte, poi, le ho provate tutte. Ho giocato lunghe partite di Canasta con mia nonna, ultranovantenne, finché non mi sono accorto che barava nascondendo pinelle sotto il sedere e prendendo tre carte invece di due ad ogni suo turno; e io a dirle che alla sua età doveva preoccuparsi dell'Inferno, e lei a dire che le importava vincere su questa terra. Mia madre (sua nuora) la sopportava, ma io no, perché il gioco ha da essere leale; e poi io gioco sempre per vincere, se no che gioco sarebbe ?. Vorrei spendere qualche parola per il Pinnacolo, che ha della Canasta e del Ramino, ma è più rapido della prima e più complesso del secondo; ma non disprezzo la vecchia Scala Quaranta. In Francia ho giocato la Belote, cara al commissario Maigret. In Spagna un gioco abbastanza idiota, del quale ho dimenticato volentieri financo il nome, figuriamoci le regole. Per amore di marito ho accettato di giocare a Colonne, unico gioco gradito a mia moglie, la quale, pur essendo cugina del più forte giocatore della storia mondiale del Bridge (Benito Garozzo), non ama le carte; aggiungo, per dignità di marito, che non l'ho fatto troppe volte. Conosco la profonda e misconosciuta base matematica del Poker, ma non ho mai giocato su tavoli impegnativi, per qualità o per soldi. Ma soprattutto, negli anni Settanta e Ottanta, ho giocato a Tressette e a Bridge.
Del Tressette non posso dimenticare la lunga estate del '72, quando ogni sera io e il mio compagno, Giulio, affrontavamo due futuri cognati, Alberto e Francesco detto il Gatto. Piano piano le belle si giocarono, anziché ai 21 punti, ai 31, poi ai 41 e ai 51, finché non venne la sera in cui era in palio l'intera sorte dell'estate, in una micidiale partita a 61 punti, con la regola, naturalmente, del "chiamarsi fuori". Verso le 4 del mattino "loro" avevano 60 punti e 2/3 e la mano era al Gatto, che disponeva di un Cavallo vincente; Giulio, con la freddezza che solo un anestesista come lui poteva avere in simile frangente, cominciò a insinuare dubbi nella mente, affaticata e tesa, del Gatto finché questi non si fidò del suo Cavallo: risultato, mano passata a noi, rapida battuta dei nostri pezzi di testa e rapida dichiarazione di "fuori mi chiamo!". Mi dispiace, tra le variazioni, aver praticato poco il Terziglio ed il Quadrigliato. Quanto al Pelino (Tressette a due) non l'ho mai veramente amato e capito: fu grazie ad esso che Massimo l'Aurili, divenuto mio schiavo dopo l'ennesima sconfitta a Tressette, potè riconquistare la libertà personale.
Quanto al Bridge, non v'è dubbio che sia bello e difficile. Mi appassionava soprattutto la fase dichiarativa (la licitazione), ma non secondo i troppi sistemi artificiali che impazzano in Italia, bensì secondo un sano sistema naturale arricchito da due o tre convenzioni universali. Ho vissuto un anno in Francia ed era facilissimo sedersi a un tavolo con sconosciuti: una sola domanda ("lunga maggiore o no ?") e cominciavi a giocare. Meno bene riuscivo nel gioco della carta, per difetto di concentrazione. Non sono mai riuscito a realizzare uno squeeze (una compressione) se non per assoluta casualità. Di fronte alla prima carta degli avversari mi mettevo a pensare per fare un piano, come insegnano tutti i libri; ma poi cominciavo a divagare con la mente. Se, nonostante tutto, ero considerato un giocatore medio, era perché, non affaticando troppo il mio cervello, dopo ore e ore ero lucido come all'inizio; ed anche perché non litigavo mai con i partner, cui è meglio dar sempre ragione.
Da qualche anno ho abbandonato il Bridge. Intanto, si finisce troppo tardi la sera. Poi, richiede troppo tempo per mantenersi allenati a livelli decenti, ed io mi sentivo troppo inadeguato: quando mi sono accorto che desideravo avere solo scartine per non avere responsabilità, ho capito che era forse meglio smettere. Infine, mia suocera ha imparato il Bridge, o, meglio, quello che lei chiama Bridge; giocare con lei era un incubo, rifiutare una scortesia. Insomma, ho smesso, e mi sono dato allo Scopone Scientifico, che ora è, praticamente, l'unico gioco da me praticato: un po' perché ho pochissimo tempo libero per giocare, un po' perché a una certa età bisogna, credo, concentrarsi, saper scegliere.
Chiariamo subito: quando dico "scopone scientifico" intendo quello classico, con le quattro carte in tavola. Lo dico contro quella forma imbastardita – particolarmente diffusa nella mia città – che prevede la distribuzione di tutte le carte ai giocatori. Variante monotona, che accresce il peso del puro caso e riduce di molto il numero degli sparigli possibili. Con le quattro carte in tavola, invece, ogni mano pone problemi diversi. E poi è questo lo scopone descritto e regolamentato da Chitarrella, il grande ed anonimo teorico napoletano del Settecento, che scrisse in un bellissimo latino maccheronico dello scopone, del tressette e dello scomparso Mediatore; e che mise in rilievo il carattere di dignità scientifica che il gioco può assumere attraverso lo spariglio e il riappariglio.
Lo giochiamo quasi sempre i soliti. Eravamo un gruppo molto affiatato di professori universitari: Renzo, zoologo; Gianfranco, sociologo ed anche, per molti anni, rettore dell'università di Pisa; Milvio, matematico; Gian Biagio, latinista; io, storico del Medioevo. Ho scritto "eravamo" perché un paio d'anni fa una rapida malattia si è portata via Renzo, che di noi era il migliore, umanamente e anche a scopone. Noi siamo rimasti qualche mese senza giocare, poi abbiamo ripreso, come lui avrebbe voluto. E quando facciamo qualche giocata contro le regole della tecnica scoponistica gli chiediamo scusa anticipatamente. Questo vale soprattutto per Milvio che, con la scusa della "legge dei grandi numeri", ed in realtà per il gusto di "fartela", rischia troppo spesso la scopa contro la quarta carta a destra. Ora lo fa solo una volta per partita ed è diventato un buon giocatore (anche se non gli viene riconosciuto ufficialmente, s'intende).
Il divertimento è nel gioco, ma anche – soprattutto? – negli sfottò, negli scherzi, nelle battute (anche feroci), che animano le serate, ma pure i giorni che passano tra una serata di gioco e l'altra, in un clima da "amici miei" che molto allieva le quotidiane pene della vita. Un solo aneddoto, per darne una pallida idea. Una volta mia nipote doveva dare l'esame con l'illustre latinista, ed io le affidai una busta per lui, con dentro un guanto, di sfida, s'intende. Lui rispose con un telegramma che ci arrivò (a me consigliere e a Gianfranco allora prorettore) in piena seduta di Consiglio di Amministrazione dell'Università; il testo diceva, seccamente: "dove volete, come volete, quando volete".
Da qualche tempo sono state cooptate nel gruppo due signore. Marie-Odile è la moglie francese dell'ex-rettore: accanitissima, ha una debolezza: farebbe, anzi fa qualsiasi cosa (compreso sparigliare da cartaia) pur di prendere una carta a denari. La sua raccomandazione al compagno è sempre la stessa: "visa (francesismo: «mira a») gli ori!". L'altra, Donatella, è forse l'unica di noi a tenere sempre a mente tutti gli sparigli fino all'ultima mano; le rimproveriamo di essere troppo rigidamente "tecnica", ma per essere una donna e per avere passato decenni a giocare senza le quattro carte in tavola, è decisamente forte. Ma, naturalmente, questo non le viene detto.