Alessandro Bedini

Presentazione di Egitto. Affari Esteri 1967-1986, di Giovanni Armillotta
(Lucca, Villa Bottini, 25 novembre 2002)

Sulla copertina del libro si vedono Mao Zedong e Mubarak che si stringono la mano. Alla fine della rivoluzione culturale con la relativa liquidazione di Lin Biao, la Cina, uscendo dal suo isolamento, enunciò la teoria cosiddetta dei tre mondi, proponendo all’Europa di crescere in potenza. Ma l’Europa non seppe cogliere tale chance. Anche l’Egitto sapeva di dover crescere in potenza perché solo così avrebbe potuto creare un suo spazio autocentrico che gli permettesse scelte autonome sia sul piano interno che internazionale. C’è dunque una sottile lieson tra l’immagine di copertina e i numerosi problemi che Giovanni Armillotta, attraverso l’analisi della politica estera egiziana, pone all’attenzione del lettore. E c’è anche un legame tra quello che accade oggi e gli scenari che vennero a costituirsi nel periodo della cosiddetta decolonizzazione, tra gli anni ’50 e gli anni ’60. (Giulietto Chiesa in un suo recente libro dedicato al dopo 11 settembre afferma che la Cina è oggi l’unica potenza in grado di assumere posizioni autonome sul piano internazionale senza dover risponderne all’unica superpotenza rimasta sul pianeta.)
Un libro di consultazione, i francesi hanno coniato per questo una definizione particolarmente appropriata, quella di Livre en Chèvet, che abbraccia uno dei periodi cruciali nella storia dei rapporti internazionali, quello della Guerra Fredda, e, per quanto riguarda il Vicino Oriente, la Guerra dei Sei Giorni e quella del Ramadân (o Yom Kippur) del 1973, e fa centro su uno dei Paesi chiave, l’Egitto, per comprendere l’intricatissimo mosaico della politica mediorientale e di tutti i Paesi, compresi quelli europei, che a vario titolo vi sono stati coinvolti.
Un libro che offre strumenti utilissimi per decifrare gli elementi di continuità e quelli di discontinuità nelle politiche portate avanti dai Paesi arabi. È giocoforza che per far centro sui numerosi rapporti multi e bilaterali che il Cairo si diede ad intessere con altri Paesi, specie dopo l’avvento al potere di Gamal Abdel Nasser, la lente d’ingrandimento si sposti sull’intero mosaico politico europeo ed extraeuropeo offrendo così un quadro d’insieme che permette di ricostruire vicende storico-politiche di fondamentale importanza per capire meglio anche quello che sta accadendo in questo momento sotto i nostri occhi.
Intorno al 1950 il massiccio movimento di decolonizzazione, associato all’emergere del Terzo Mondo come potenza politica, parve offrire un terreno di ricambio all’idea di rivoluzione. La situazione egiziana dimostra molto bene questa asserzione che numerosi osservatori hanno avanzato anche in tempi recenti. C’è un rapporto assai stretto fra il terzomondismo e il risveglio del regionalismo europeo e tutto questo viene fuori anche dall’analisi della politica estera egiziana. È stato Friedrick Engels ad affermare che sul versante della politica estera si giocano le partite più importanti per il presente ma anche per il futuro politico di un Paese. Una lezione che oggi appare dimenticata.
Si può dire che in quel periodo, gli anni Cinquanta-Sessanta, si sia verificato un duplice movimento: dal centro verso la periferia con il trasferimento ai Paesi non sviluppati delle speranze rivoluzionarie in via d’estinzione nell’Occidente borghese; dalla periferia verso il centro con il trasferimento alle popolazioni europee delle preoccupazioni etnografiche di cui un tempo erano oggetto le popolazioni primitive. Le politiche assistenzialistiche portate avanti a suon di aiuti finanziari ma non per lo sviluppo di economie compatibili con le tradizioni, le culture, le vocazioni popolari dei popoli cui erano destinate, hanno prodotto più che altro danni. Antoinie Kakou sulla rivista “Presénce africaine” scriveva:

l’aiuto economico rimane piuttosto spesso un mezzo di pressione, di corruzione e di messa sotto tutela [...] La dominazione economica porta con sé una dominazione socio-culturale e politica [...]. L’installazione della società industriale all’interno delle società del Terzo Mondo non può che perturbare il modo di organizzazione sociale adatto ad un’economia tradizionale ...La civiltà industriale diffonde i suoi valori e con una incredibile rapidità i suoi antivalori [...] I vantaggi della società industriale vengono confusi con il modo di vita occidentale. Le conseguenze di questo effetto di imitazione sono numerose sul piano economico: la produzione tradizionale, l’artigianato perdono i loro mercati; le importazioni pericolosamente gonfiate rispondono alla corsa al benessere occidentale a detrimento dell’impiantistica dei Paesi sottosviluppati.

Considerazioni che nell’epoca della globalizzazione restano più che mai attuali.
L’aiuto al Terzo Mondo ha un senso soltanto se è finalizzato alla creazione sul posto di condizioni di sviluppo che rispettino le specificità collettive e le culture differenziate. L’epoca della decolonizzazione, che ha riguardato da vicino l’Egitto ma non solo, poneva e pone ancora oggi questo tipo di problemi. Chi si cimenterà con il libro che presentiamo oggi verrà accompagnato lungo il percorso di lettura da una mole veramente ampia di documenti, appendici, mappe che aiuteranno ad orientarsi nella lettura stessa. Sottolineo questa particolarità perché è sempre più raro trovare volumi che posseggano, oltre al dono della chiarezza e dello spessore scientifico, anche quelle piccole grandi cose che sono gli indici ben fatti (indice analitico e indice dei nomi) le appendici che riportano trattati, manifesti e documenti di valore internazionale, e inoltre cartine ragionate che fanno capire quanto molto spesso geografia e storia siano strettamente connesse.
In realtà il libro di Giovanni Armillotta, studioso di politica internazionale attento e particolarmente documentato, non è solo un excursus di politica estera ma anche un libro di storia, più esattamente di storia recente, direi attuale, dato che il focolaio di crisi apertosi nel Vicino Oriente all’immediato indomani dalla fine della seconda guerra mondiale, è ancora lontano, ahimè, dallo spegnersi. Armillotta ci presenta un quadro molto esauriente della politica estera ma anche di quella interna dell’Egitto. Ci parla del periodo nasseriano, della nascita e dello sviluppo del nazionalismo arabo, del tentativo di creare le fondamenta di uno stato che aveva subìto invasioni, egemonie e influenze di ogni genere da parte delle potenze coloniali europee, prima fra tutte la Gran Bretagna. Poi passa ad analizzare gli elementi che contribuirono alla nascita e in seguito allo sfaldamento della RAU, la Repubblica Araba Unita sorta nel 1958 dalla fusione tra Egitto e Siria alla quale si associò poco dopo anche lo Yemen. La nascita dello stato d’Israele e poi la crisi di Suez, scoppiata nel 1956, con la rivendicazione da parte egiziana del totale controllo dell’importantissima via marittima, è strettamente collegabile al conflitto verificatosi a causa dell’ incondizionato, qualcuno direbbe miope, appoggio occidentale allo Stato ebraico appena costituitosi.
Già all’epoca il ruolo dell’ONU apparve in balia delle grandi potenze e i documenti che Armillotta ci presenta lo rendono oltremodo chiaro. La risoluzione del 2 novembre 1956, puntualmente riportata dall’autore, che imponeva a Israele di ritirarsi dalla Penisola del Sinai, occupata precedentemente assieme ai territori intorno alla città palestinese di Gaza, ebbe seguito solo un anno dopo e solo allora l’Egitto iniziò le operazioni per rendere di nuovo navigabile il Canale di Suez. Sempre nel ’56 le truppe anglo-francesi avevano occupato Port Said ma il deciso intervento dell’Unione Sovietica impedì il proseguimento delle operazioni militari. Armillotta individua accuratamente i nodi politici che il Paese delle piramidi si trovò ad affrontare all’indomani della raggiunta indipendenza.
L’Egitto doveva lottare contro l’influenza francese nel Magreb, l’influenza britannica in Sudan, nella Penisola Arabica e nel golfo Persico e inoltre doveva controllare le tendenze centrifughe del mondo arabo parte del quale non voleva dipendere dal Cairo. Il Patto di Baghdad fra la Turchia e l’Iraq, che viene ad inserirsi in questo quadro, minacciava di strangolare il Paese e l’Egitto si oppose con tutte le proprie forze a questa alleanza, arrivando addirittura a proporre l’espulsione dell’Iraq dalla Lega Araba.
Non si può non sottolineare come quando nel 1991 scoppiò la Guerra del Golfo, l’Egitto abbia preferito schierarsi dalla parte dell’Occidente non solo perché avrebbe visto la cancellazione, da parte degli Stati Uniti, di un debito pari a sette miliardi di dollari, ma anche in funzione dell’anitica rivalità con il Paese diventato di Saddam Hussein. E proprio da queste valutazioni emergono altresì le contraddizioni interne al mondo arabo e più vastamente islamico, contraddizioni che sono sfociate in conflitti cruenti come la guerra dimenticata tra Iran e Iraq, durata ben otto anni e costata milioni di morti. Quella fu una guerra per conto terzi: occorreva stanare e possibilmente eliminare i pretacci neri che comandavano a Teheran, leggi l’Ayatollah Komeiny e i suoi adepti e per far questo si pensò bene di scatenare una guerra e di armare Saddam Hussein allora ritenuto uno dei leader più illuminati e tolleranti del mondo arabo, per distruggere il Paese che aveva rifiutato l’occidentalizzazione che lo Scià gli voleva imporre. In seguito Saddam sarebbe diventato il nuovo Hitler, perché non serviva più, e oggi i venti di guerra tornano a soffiare minacciosi su un Paese stremato a causa di un embargo disumano che dura da più di dieci anni, ha causato migliaia e milgiaia di vittime tra i civili e non ha per niente indebolito il dittatore di Baghdad che recentemente ha ricevuto dal suo popolo un consenso plebiscitario.
Ma torniamo all’Egitto. La partecipazione di Nasser alla conferenza di Bandung, dove si gettarono le basi del movimento dei Paesi non-allineati, il suo rapporto con la Jugoslavia di Tito, il cosiddetto neutralismo positivo, al quale Armillotta dedica un capitolo interessantissimo, sono le linee guida delle scelte che Nasser compì per affermare l’autonomia, l’indipendenza e l’autodeterminazione del suo Paese. In Particolare la scelta del neutralismo positivo fu visto da molti osservatori come un distacco dall’Europa e in parte lo fu. Ma tale politica veniva dettata proprio dall’atteggiamento occidentale, i trattati commerciali di una certa importanza stupulati dall’Egitto con i Paesi del blocco sovietico, furono, a detta di molti studiosi, un tentativo di forzare la mano ai Paesi occidentali.
I termini usati da Nasser come quello di imperialismo nei confronti dell’Occidente, ribaditi a Bandung, e che videro l’adesione dell’India di Nheru e di altri Paesi desiderosi di modernizzarsi, non significò comunque il cedimento verso posizioni filorusse. Riporta Anouar Abdel-Malek, citato da Armillotta (p. 257):

In realtà il neutralismo egiziano degli anni 1955-58, comprende tre settori che è possibile distinguere chiaramente: a destra la grande borghesia industriale e bancaria, tradizionalmente anticomunista, ma che si vede costretta a difendersi nei rapporti con l’Occidente, e vuol trarre profitto dalla tattica del mercanteggiamento; a sinistra coloro che fanno capo ideologicamente al gruppo Al Missa e che fanno della lotta contro l’imperialismo il centro della battaglia per la pace e la coesistenza, vista dall’obiettivo particolare dei popoli ex coloniali o ancora coloniali; al centro l’organizzazione militare che tenta di equilibrare queste tendenze centrifughe.

I pilastri politici delle scelte egiziane furono sostanzialmente tre: la lotta contro l’aggressione imperialista guidata dagli Stati Uniti e Israele, che avrebbe dovuto concretizzarsi nella liberazione dell’economia nazionale dalle influenze straniere, il rifiuto di alleanze imposte dall’esterno, l’appoggio ai movimenti nazionali sorti in quei Paesi che ancora non hanno conseguito l’indipendenza o che la vedono minacciata. Il secondo punto si riferisce al sistema delle alleanze: gli alleati saranno coloro che in Africa e Asia professano il neutralismo positivo e si oppongono così all’imperialismo. Anche i Paesi socialisti fanno parte di questo quadro di alleanze, in quanto anch’essi interessati alla salvaguardia della pace, presupposto fondamentale per il loro sviluppo economico. La terza questione da porre in rilievo riguarda la proposta di disarmo.
Secondo Boutros Boutros-Ghali, che diverrà in seguito segretario generale dell’ONU il neutralismo positivo nascerebbe da una duplice valutazione: una negativa l’altra positiva. La prima consiste nel rifiuto di partecipare alla Guerra Fredda e presuppone di conseguenza la scelta di non partecipare a nessun blocco militare che si venga a formare. La seconda consiste nel valorizzare la posizione di non-allineamento perseguendo i propri interessi nazionali e internazionali. I Paesi che aderiscono alla politica del neutralismo positivo si differenziano da coloro che perseguono la coesistenza pacifica. I secondi infatti ricercano un equilibrio all’interno di una logica basata sul possesso di armamenti nucleari o comunque di sterminio di massa, come diremmo oggi. I Paesi neutrali invece contestano questo tipo di equilibrio, non sono in possesso di armi nucleari e lavorano per ottenere il disarmo generale.
Mi permetto di fare una digressione su un tema, quello del neutralismo, che ha conosciuto alterne vicende e altrettanto alterne fortune. La prima proposta di creare una Germania neutrale e riunificata venne da Stalin nel 1952. Perché la Germania? Perché essa era la chiave di volta per ridefinire il ruolo dell’Europa dopo la tragica guerra civile che Ernest Nolte fa iniziare nel 1914 e terminare nel 1945. Ci si chiederà cosa c’entri tutto questo con la politica estera egiziana. Ebbene sono convinto che qualora vi fosse stata una riunificazione della Gemania all’insegna della neutralità, anche la politica mediorientale sarebbe stata profondamente diversa. Ad opporsi al progetto sovietico fu soprattutto Adenauer, detto anche ‘Il Cancelliere degli Alleati’, paventando il rischio di finlandizzazione della nazione tedesca.
Ma anche i comunisti della Germania Orientale temevano una tale soluzione. Ulbricht era convinto che la riunificazione e le libere elezioni che avrebbero dovuto tenersi secondo il progetto sovietico, avrebbero ridotto all’osso lo strapotere del partito comunista da lui guidato. I sovietici avanzarono di nuovo le loro proposte sulla neutralità nel 1954 all’epoca della conferenza delle quattro potenze. Nel 1955 l’URSS si oppose all’ingresso dell’allora Repubblica Federale Tedesca nella NATO e suggerirono ancora una volta il loro piano, insistendo sul fatto che una riunificazione tedesca fondata sulla neutralità e all’insegna della democrazia parlamentare sarebbe andata a favore dell’intero popolo tedesco. L’inserimento nella NATO avrebbe invece comportato un rafforzamento dello statu quo e dunque della divisione. Per di più i sovietici proposero in quell’occasione perfino la restituzione alla Germania di alcuni dei territori posti sotto amministrazione polacca.
Siccome la storia, come ci insegna Franco Cardini, si fa anche con i se e con i ma, non è del tutto infondato riflettere sulle conseguenze che l’adozione della soluzione neutralista avrebbe comportato sullo scenario internazionale. La proposta neutralista venne ripresa tra la metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, da movimenti come quello dei grünen tedeschi, ma anche da altre formazioni politiche non solo germaniche. Ricordo di aver partecipato nel 1983 a Ginevra ad una manifestazione internazionale dove la galassia alternativa-verde e neutralista presentava non pochi tratti di interesse. Persino da un versante che potremmo definire, pur con tutte le cautele, di destra, come il movimento che faceva capo a Robert Steuckers e alla sua rivista “Orientation”, ebbe a riprendere e sviluppare simili tesi facendo riferimento esplicito alla politica portata avanti negli anni Cinquanta dal Presidente egiziano Nasser.
L’interesse per le posizioni dei Paesi non-allineati ebbe nuovo vigore grazie a due intellettuali tedeschi Peter Brandt, figlio del Cancelliere Willy Brandt, e Herbert Hemmond. Costoro proponevano addirittura di stipulare un nuovo trattato di pace a quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, che tenesse in considerazione le mutazioni geopolitiche intervenute e istituisse una sorta di cordone neutrale che dalla Scandinavia giungesse fino alla Svizzera. È fantascienza supporre che un simile insieme di Paesi avrebbero avuto ogni interesse ad avere rapporti con un mondo arabo che si batteva contro l’imperialismo e contro l’egemonia statunitense sul pianeta? Penso proprio di no. E sono anche convinto che molte cose sarebbero cambiate negli equilibri internazionali.
Alain De Benoist in un suo interessantissimo libro dal titolo Oltre l’Occidente. Europa-Terzo mondo: la nuova alleanza, pubblicato in Italia nel 1986, quando ancora esisteva l’Unione Sovietica e soprattutto il muro di Berlino, scriveva:

Attorno al 1905 il Terzo Mondo si rivolgeva verso il Giappone. Nel 1930 si volgeva in direzione della Germania. In seguito si è rivolto verso gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Ogni volta è stato deluso. Non gli resta, oggi, che voltarsi verso l’Europa, la quale, alla ricerca anch’essa di una terza via, è potenzialmente alleata di tutti i Paesi che, nel mondo, cercano di sfuggire all’influenza delle superpotenze. Ma c’è bisogno che anche l’Europa se ne renda conto e faccia del dialogo Nord/Sud un mezzo per spezzare la dialettica Est/Ovest, che dia l’esempio e vada avanti. Un sogno impossibile?

concludeva De Benoist, forse un sogno ma io mi auguro non impossibile, perché solo riscoprendo l’importanza della creazione di spazi autocentrici è possibile sfuggire alla logica dell’Impero che oggi muove guerra a questo domani a quell’altro.
Certo l’attualità non è incoraggiante.
È di questi giorni che nell’ambito della conferenza NATO tenutasi a Praga, l’Europa ha di fatto rinunziato al progetto di creazione della Forza Rapida Europea di Intervento, autonoma dal Patto Atlantico, che avrebbe costituito l’embrione di un esercito europeo in grado di dare spessore politico alle decisioni del Vecchio Continente. I nostri alleati hanno imposto un’altra soluzione, quella di costituire una forza di pronto intervento formata da 21 mila militari di diverse nazionalità e posta sotto il diretto comando altlantico, ossia degli Stati Uniti d’America.

* * *

Tra i risultati più importanti raggiunti dall’Egitto nel campo della politica interna e delle grandi opere pubbliche ci fu quello della costruzione della diga di Aswân. La crisi conseguente con il Sudan per la sistemazione e lo sfruttamento delle acque del Nilo e le titubanze occidentali rispetto al progetto nasseriano, provocarono l’avvicinamento dell’Egitto all’Unione Sovietica che investì molto sulla realizzazione del progetto Aswan. Ancora oggi, visitando l’enorme diga, le guide più informate indicano il disegno di progettazione dal quale emergerebbero una falce e martello, simbolo della partecipazione sovietica alla costruzione di questa grande opera. Dunque la sua realizzazione allontanò ulteriormente il Cairo dai Paesi dell’Occidente che ebbero un comportamento assai ambiguo rispetto al progetto della grande diga, anche per l’influenza negativa esercitata da Israele.
E appunto Israele è il nodo fondamentale per capire fino in fondo il comportamento politico dell’Egitto, compreso il trattato di pace che portò l’Egitto all’isolamento nel mondo arabo. Le continue minacce alla sicurezza della diga di Aswân che il Paese ebraico avanza, di tanto in tanto ancora oggi e che per inciso vengono riportate solo dalla stampa araba, fanno parte di una politica, appoggiata dall’Occidente, che tende a limitare la sicurezza e dunque le capacità di sviluppo di tutti i Paesi vicini alla grande potenza economico-militare israeliana.
Si è parlato e si parla molto di trattati internazionali e soprattutto di diritto internazionale. Lo fa anche Giovanni Armillotta. Ebbene uno studio pubblicato il 10 ottobre scorso sul quotidiano israeliano Ha’aretz, ci fa capire tra l’altro perché molti Paesi arabi abbiano percepito e continuino a percepire la politica occidentale come un’aggressione alla loro civiltà, alle loro tradizioni e alla loro autonomia e indipendenza. Il trattato di Camp David nel quale si lasciò irrisolta la questione palestinese, la riluttanza o meglio il rifiuto di Washington di imporre a Israele il ritiro dai territori occupati, compresi quelli appartenenti alla Siria e al Libano, che fino a prova contraria sono Stati sovrani, hanno rappresentato l’humus ideale per lo sviluppo del cosiddetto fondamentalismo islamico, del quale, tanto per rimanere all’Egitto, rimase vittima lo stesso presidente Sadat.
Dan Vittorio Segre, un osservatore particolarmente acuto nelle questioni mediorientali, all’indomani degli accordi di Oslo del 1993 preconizzò che quegli accordi erano destinati al fallimento perché non risolvevano dalle fondamenta la questione palestinese.
Segre fu purtroppo un buon profeta.
Non possiamo ignorare che l’opinione pubblica egiziana, al di là delle posizioni ufficiali del governo e dei rapporti diplomatici, è solidale con la causa palestinese e molti egiziani fanno parte di quelle che vengono definite organizzazioni fondamentaliste.
Un Paese composito l’Egitto, dove vive una comunità cristiana molto importante, i copti, oltre un milione di fedeli, che si richiama alla tradizione precedente la conquista araba. La posizione dei copti è di fedeltà allo Stato ma anche per loro il conflitto israelo-palestinese è una spina nel fianco, così come per tutto il mondo arabo, compreso quello cristiano. Lo stesso vale per i cristiani di Siria, per i caldei della Persia, per i maroniti del Libano. C’è insomma unità d’intenti, sul piano politico, tra le comunità cristiano-orientali, o almeno tra la maggioranza di esse e il mondo musulmano.
Non nego che vi siano attriti e anche momenti di crisi, nello scrivere un reportage per “Storia & Dossier” sul cristianesimo orientale, mi sono imbattuto nelle infinite varianti di esso: siriaco-ortodossi e cattolici, giacobiti, caldei, copti, maroniti, armeni, tutti desiderosi, come è ovvio, di mantenere la loro identità pur essendo minoranza, ma comunque convinti che la pace nelle regioni del Vicino Oriente passi attraverso una profonda revisione della politica dell’Occidente nei confronti del mondo arabo e più vastamente islamico. La sensazione diffusa è che l’ideologia coloniale si sia prolungata in altre forme che non quella militare e che la vera indipendenza sia ancora di là da venire. Sarebbe assai interessante analizzare più da vicino i rapporti tra le comunità cristiano-orientali e i diversi governi dei Paesi in cui si trovano alla luce della politica estera da essi portata avanti.
Ma questo potrebbe essere lo spunto per un altro libro, magari scritto da Giovanni Armillotta.

© 2002