"METODO", N. 17/2001

Lucia Nuti
(Docente di Storia dell'architettura moderna nell’Università di Pisa)
LA CITTÀ NUOVA NELLA CULTURA URBANISTICA
E ARCHITETTONICA DEL FASCISMO

Illustrazioni all’articolo

La politica di fondazione fu varata dal regime fascista all’inizio degli anni Trenta e condotta poi sino alle soglie della guerra senza soluzione di continuità, con una periodicità annuale quasi costante. Aggregata di volta in volta a scelte vincenti, la bonifica integrale prima, l’autarchia poi, essa non fu mai comunque abbandonata ed ancora dopo il 1940 sotto questo segno veniva riorganizzato l’insediamento nei nuovi grandi comprensori di bonifica del Tavoliere e del Foggiano (1).
Si può indubbiamente obiettare che le città nuove non erano città nel senso proprio del termine, sia per l’estensione territoriale molto modesta, sia per l’elementarità della popolazione residente. Soltanto due di esse – Littoria e Carbonia – superarono di molto le soglie fissate sfuggendo alle stesse previsioni dei costruttori, ma Carbonia rimase ugualmente per la sua composizione demografica qualcosa di sostanzialmente diverso da una città.
Ed è ugualmente vero che le nuove fondazioni non erano nate all’interno di un programma di urbanizzazione delle popolazioni rurali. Si cercava al contrario di favorire la deurbanizzazione sottraendo manodopera eccedente e potenzialità conflittuale nelle zone più calde per trasferirla stabilmente sotto il controllo di più idonei patti di lavoro. Ma la questione città/non città appare presto superata da un altro dato fondamentale: con l’immediata elevazione a comune, i piccoli centri appena sorti divenivano attivi nei confronti di una porzione del territorio circostante come sede di funzioni, sia pure elementari. Essi erano quindi l’elemento base di un’organizzazione verticistica del territorio che dal centro raggiungeva la periferia attraverso una rete di controlli; rete che in quegli anni si stava appunto riorganizzando con una revisione delle circoscrizioni amministrative, accorpamenti o smembramenti, promozioni o declassamenti gerarchici di capoluoghi.
È proprio questo in ultima analisi l’elemento unificatore di una sequenza di interventi altrimenti caratterizzata da settorialità, da incertezze, da improvvisazioni, da episodicità; e l’intera vicenda diviene in questo modo scelta politica. Poiché però la fondazione non fu gestita direttamente dagli organi statali, ma passò attraverso il fìtto sottobosco di enti parastatali o anche società private, i meccanismi innescati non funzionavano poi così direttamente in senso centripeto, ma furono immediatamente bloccati dal filtro dell’Ente costruttore. In tal modo l’Ente, in contrasto o in sintonia con il potere centrale, diveniva il primo vero detentore di quelle funzioni. Rimane ancora da verificare quanto il termine «nuova» si spinga al di là dell’ovvia novità della presenza urbana su un territorio in precedenza privo di insediamenti e in che misura sia motivato da scelte culturali nuove.
Mussolini, nell’inaugurare Littoria, intendeva questa novità nel rifiuto di un’identità e di prerogative urbane e respingeva polemicamente per i nuovi centri anche il nome città (2); ma le esigenze di propaganda gli avrebbero fatto presto cambiare idea. In seguito Piccinato, nell’illustrare Sabaudia, ne sottolineava la novità rifiutando ancora il termine città nel senso ottocentesco, come qualcosa «di chiuso, di murato, qualche cosa di contrapposto alla campagna» (3). Poco dopo però l’involuzione culturale sempre più pesante doveva attenuare queste polemiche affermazioni di novità e reinserire le «moderne città di bonifica» nell’alveo della tradizione nostrana.
Verifichiamo allora quale fu la risposta della cultura contemporanea di fronte al tema, che in quegli anni diveniva occasione concreta, della tanto sognata progettazione globale che non fosse vincolata da preesistenze storiche.
Quasi paradossalmente la città nuova sulla carta stenta ad assumere una dimensione che non sia quella ufficiale composta con le veline dei comunicati stampa. E se questo silenzio agli albori della vicenda, tra il 1928 e il 1932, cioè tra il primo, incerto costituirsi di Mussolinia e l’inaugurazione di Littoria, può essere ancora imputato a disattenzione o sottovalutazione del problema, la stessa motivazione non è più sostenibile quando nel giro di pochi anni la propaganda crea ed alimenta, con un bombardamento di immagini e notizie, il mito della città nuova, esportandolo anche oltre i confini nazionali.
Per la seconda città pontina è bandito un concorso nazionale che coinvolge attivamente alcuni gruppi di tecnici e sul suo esito si scatena addirittura una baruffa parlamentare.
Il nome di Sabaudia diviene immediatamente noto, ma non serve ad aprire una riflessione critica sulla città nuova. La realizzazione anzi fornisce nuovi argomenti a favore del razionalismo in un dibattito sull’architettura che contemporaneamente dilaga sulle riviste, trasformandosi spesso in una polemica improduttiva.
“Casabella” – che pure costituì in tutti quegli anni la voce di un dissenso o almeno di una verifica critica sulle principali opere del regime – esclude anche la semplice informazione sulle città realizzate, con l’ovvia eccezione di Sabaudia, per la quale Pensabene confeziona un commento che non si discosta nemmeno troppo dai comunicati ufficiali.
Pagano alla fine del 1942 poteva giustamente vantarsi che la rivista in diverse occasioni si era occupata di urbanistica (4), ma ciò era avvenuto soltanto in relazione ai problemi della grande città, sia sul tema degli scempi perpetrati nei centri storici, sia su quello delle case popolarissime nei nuovi quartieri operai. Pagano era stato inoltre coinvolto in prima persona nello studio per il raddoppiamento di un piccolo centro, Portoscuso, a servizio delle miniere di carbone del Sulcis.
Eppure soltanto a fatica e tra le righe dei suoi scritti di quegli anni, relativi alla polemica sull’architettura, si rintracciano due accenni alle città nuove: uno diretto con l’abituale sarcasmo contro i progetti architettonici del Frezzotti per gli edifici pubblici di Pontinia e l’altro, molto enigmatico, sulle inabitabili case di Arsia (5).
“Quadrante” tra il 1934 e il 1935 diffonde con una raffica di brevi e confusi articoli la teoria della città corporativa (6). Il discorso coinvolge vecchie città e fondazioni nuove nel quadro di una revisione totale dell’urbanistica. Secondo la teoria soltanto la formulazione di un piano regolatore nazionale avrebbe consentito di stabilire preliminarmente, nel quadro dell’interesse generale, le funzioni da assegnare ad ogni singola città. La città sarebbe quindi divenuta corporativa in quanto espressione del carattere corporativo del regime fascista, lontano dall’anarchismo liberale, lontano dall’oppressivo collettivismo.
Perché, entro i limiti assegnati dall’alto, ogni città avrebbe poi conservato l’individualità del suo quadro formale, l’originalità del suo volto; e a plasmarne armoniosamente l’anima era chiamato appunto l’urbanista. Sboccata nel vicolo cieco della coincidenza tra forma architettonico-urbanistica ed espressione politica, la teoria diventava inevitabilmente ancora più vaga e confusa. Accettava l’equazione linea retta/ordine nuovo e razionale ed identificava la vera espressione del fascismo in geometria, limpidità e chiarezza.
Ma nonostante questo, le prime città pontine risultavano una cocente delusione, una moneta falsa anche se nuova. Le strade diritte, le facciate regolari erano solo il riassestamento esteriore di una città vecchia nel contenuto. L’occasione era stata sprecata, il principio puro inquinato per incompetenza dei tecnici che non si erano mostrati all’altezza del compito e non avevano bene assimilato il concetto di città fascista corporativa: fascista nell’impianto urbanistico (conscia cioè della missione che nel complesso lo Stato deve assolvere) e di conseguenza nella sua organizzazione e nella sua vita.
Era questa una nuova invocazione da parte degli architetti perché l’architettura moderna, le cui posizioni ormai progressivamente si indebolivano, fosse salvata con un atto di forza e fosse proclamata vincente dittatorialmente, come architettura di Stato.
E l’equivoco di questa richiesta che contraddiceva in pieno i princìpi stessi dell’architettura moderna non poteva non sfuggire a Persico (7), la cui sdegnata replica non si fece attendere, mentre la teoria stessa naufragava nell’indifferenza generale.
Ancora una volta, con Persico il dibattito ritornava sull’architettura e sulla triste condizione del razionalismo italiano, esasperazione sentimentale senza fede, camuffato ora, dopo la «romanità» e la «mediterraneità», in quest’ultimo travestimento.
Ma Persico nella sua amara requisitoria aveva sottolineato le contraddizioni di fondo della teoria, tralasciando altre importanti indicazioni di carattere più propriamente urbanistico che in essa erano contenute e che consentono un’altra chiave di lettura: la prima era un’indicazione di «piano» su scala nazionale come strumento per una borghesia che intendesse razionalizzare al massimo i propri interventi sul territorio; la seconda un’individuazione dell’organismo urbano attraverso le funzioni svolte nei confronti del territorio; infine l’esplicita richiesta di sventramento dei centri storici, per riplasmare gli spazi adattandoli alle nuove funzioni. Il ruolo dell’urbanista veniva ancora pienamente confermato in quello del tecnico, plasmatore di forme, strumento della committenza.
Se le scelte operative del regime coincisero di volta in volta con le ipotesi dei «corporativisti», quelle culturali no. E la proposta, nonostante fosse ampiamente ammantata di piaggeria nei confronti del fascismo, cadde nel vuoto.
Neanche il durissimo intervento di Piacentini su “Architettura” a proposito del concorso di Aprilia indicava una reale volontà di revisione del problema o l’espressione di una linea alternativa (8). Può sembrare certo contraddittorio che da una rivista così influente si desse ufficialmente voce a quel coro di proteste e malcontenti suscitato dal discutibile verdetto della commissione. Piacentini criticava senza mezzi termini i criteri di pianificazione adottati nell’Agro dall’Opera nazionale combattenti (Onc) e soprattutto il progetto prescelto sottolineandone i numerosi difetti. Contrapponeva allo schema monocentrico, come generatore del nucleo urbano, lo schema autoctono delle borgate laziali, costruite attorno a una corte con elementi edilizi aperti e lineari; di esse il progetto Calza Bini-Nicolini produceva un’originale interpretazione. Ma era questa l’alternativa?
In realtà Piacentini, aiutato dall’effettiva mediocrità del progetto vincente, che prestava benissimo il fianco alle critiche, intendeva soltanto contrapporre clientela a clientela, mirando soprattutto a colpire l’operato di Giovannoni, esperto influente nella commissione giudicatrice. E l’azione era pericolosa perché l’accusa era lanciata proprio dalla tribuna di “Architettura”, organo ufficiale del Sindacato nazionale architetti, e scatenò come era presumibile un piccolo terremoto; ma colpì esattamente nel segno che aveva mirato. Non provocò infatti nessuna reale revisione dei sistemi dell’Onc, né tantomeno aprì un dibattito sulla città nuova; ma solo doveva ottenere, attraverso un compromesso, un assestamento interno che non mettesse in discussione la gerarchia. Giovannoni assieme ai progettisti rielaborò totalmente il progetto che conservava col primo una certa affinità formale; un articolo successivo della redazione di “Architettura” commentava con un tono neutro il progetto attuato; Piacentini stesso infine sostituì Giovannoni nel concorso relativo a Pomezia, all’interno del quale combatté ancora una volta la battaglia per la propria clientela. Di fronte alla seconda sconfitta l’accomodamento fu molto più rapido ed indolore.
Se un vero dibattito sulla città nuova non si accese nonostante il moltiplicarsi delle occasioni, quand’anche un solo arco o una sola colonna comparsa nei nuovi edifici faceva scorrere parole su parole, fu perché la realizzazione era venuta prima che fosse maturata una coscienza critica del problema e trovava impreparato il fronte culturale. Il nuovo architetto, uscito fresco fresco dalle scuole di architettura appena costituite, fu subito trascinato in vaste operazioni urbane e territoriali in cui dar prova della capacità operativa acquisita. L’adesione entusiastica ai grandi programmi in cui veniva coinvolto e le stesse lotte per non esserne escluso ritardarono di fatto la valutazione critica delle scelte di fondo e della dimensione in cui come tecnico stava operando. La presa di coscienza doveva venire soltanto molto più tardi, quando le operazioni erano ormai compiute.
La costruzione delle città nuove fu così condotta senza alcun confronto con indicazioni o proposte che sarebbero potute derivare da un parallelo dibattito culturale, e per tutta la fase di pianificazione il tecnico non può neppure rivendicare il ruolo, di cui spesso si compiace, di suggeritore inascoltato.
Di pianificazione vera e propria non sarebbe neppure il caso di parlare al di fuori dell’unica, debole eccezione della bonifica pontina. La fondazione della città, decisa in tempi molto brevi, era infatti preceduta soltanto da poche e rapide operazioni preliminari, totalmente gestite dagli uffici tecnici dei singoli Enti: delimitazione del territorio comunale, scelta del luogo e compilazione di quei dati di massima indispensabili alla stesura del progetto (numero degli abitanti, estensione dell’abitato, costo massimo, ecc.). La scala regionale dell’intervento pontino sembra suggerire invece l’esistenza di un piano o almeno di un programma organico su cui condurre le operazioni.
Ma la grande bonifica è da ricondursi innanzitutto a due momenti diversi e a due diversi comprensori, di cui il secondo non fu che l’appendice, condotta quasi per inerzia, di un’operazione che non era opportuno lasciar cadere.
Quando, al termine della bonifica idraulica del primo comprensorio, i funzionari dell’Onc si trovarono ad affrontare il problema della bonifica agraria e della forma da dare all’insediamento, la pianificazione si risolse in una scelta fondata più sull’elementarità che sulla razionalità della figura geometrica: il territorio scandito dalle linee delle migliare e dei canali veniva suddiviso in maglie ortogonali all’interno delle quali trovava posto l’unità insediativa e produttiva, cioè la casa colonica ed il podere. L’insediamento sparso, funzionale alla scelta di un contratto di produzione – la mezzadria – come cardine dell’intero sistema, era di nuovo ricomposto nell’unità dei centri di coordinamento, i borghi prima, le città di bonifica poi. Ad un numero di poderi corrispondeva un borgo, ad un numero di borghi una città. Il territorio era così strutturato gerarchicamente attraverso un sistema piramidale di controlli burocratico-amministrativi, fissati sulla base di una corrispondenza numerica astratta. A conclusione della prima fase, mentre già era bandito con grande clamore pubblicitario il concorso per Aprilia, la prima città del nuovo comprensorio, erano ampiamente valutabili le inadeguatezze e i limiti del sistema sperimentato con improvvisazione e pressappochismo. Littoria, creata per una piccola dimensione e divenuta poi capoluogo di provincia, si stava sviluppando caoticamente con un ritmo non previsto e necessitava di un nuovo piano; Sabaudia, razionalmente progettata, rimaneva una bella scenografia che si faticava a riempire; Pontinia, destinata a centro industriale dell’Agro, non era andata al di là di pochi edifici pubblici e pochissime case. Ci si accorgeva chiaramente insomma che i centri urbani erano ormai più che sufficienti e che sarebbero state utili più numerose borgate rurali. S’imponeva a questo punto una valutazione dei risultati per procedere ad una pianificazione più attenta. «Ma – rispondeva di Crollalanza a due commissari che gli parlavano appunto di piano regionale – un piano regionale anche sommario richiederebbe un periodo di tempo che di fatto non si ha, essendo assai prossima la data della fondazione di Aprilia» (9).
In base a questi principî dunque, veniva completato il programma e costruite le due ultime città previste, del tutto inutili dal punto di vista di un loro reale collegamento con l’attività produttiva, ma funzionali al prolungamento del miracolo della provincia redenta fino alle soglie della capitale. Pomezia in particolare nasceva già come borgata di transito, porta d’ingresso per i visitatori di ogni tipo nella regione bonificata. E quindi l’accento della committenza si spostò, come mai era avvenuto prima, sulla ricerca di un’immagine urbana che qualificasse l’intera operazione condotta e ne rappresentasse un chiaro, leggibile simbolo. Dopo la tendenza alla privatizzazione ed alla semiclandestinità con cui fu gestita la prima fase, furono banditi e pubblicizzati al massimo due concorsi nazionali. Ed è appunto tra le righe dei bandi, in una terminologia ambigua continuamente oscillante tra modernità e tradizione, tra centro cittadino, comune rurale e borgo fascista, che s’intravede l’immagine della città nuova così come, dopo la prima fase di rodaggio, si era composta agli occhi dei responsabili della bonifica; un’immagine che esprime tanto bene l’ideologia della politica di fondazione da essere accettata negli anni seguenti con poche variazioni, anche per centri sorti in circostanze molte diverse e che rurali non erano. La modestia era il primo ingrediente di quell’immagine; e non si trattava tanto di modestia come limitata estensione spaziale, quanto di una vera e propria categoria estetica non disgiunta da considerazioni di carattere economico. La necessità di costruire in economia portava all’immediata esclusione del ferro e del cemento armato ed alla riduzione degli elementi metallici; si recuperavano dunque i materiali poveri ed i sistemi costruttivi tradizionali pienamente rispondenti alla modesta entità degli edifìci pubblici. I privati sarebbero stati ancora più modesti, per dare a quelli il dovuto risalto, e la piazza principale di dimensioni contenute per non far apparire meschini i fabbricati circostanti. Altro requisito della città era quello di offrire un ambiente armonico e gradevole al suo interno, potenziato da un abile sfruttamento degli effetti panoramici sul paesaggio circostante.
Gli edifici pubblici da soli dovevano già fornire una scenografìa accettabile.
E qui l’«armonico» e il «gradevole» rimandavano a problemi di gusto: e la carta vincente era anche questa volta l’italianità nella sua filiazione più modesta, il «localismo», inteso come rivisitazione di materiali, moduli costruttivi e decorativi dell’architettura locale.
Confluivano in quest’orientamento le suggestioni della rivalutazione, compiuta da Pagano, dell’architettura rurale in Italia, vissute in un clima di autarchica ribellione alle servitù straniere (10); ma ancor più gli echi che questa riscoperta aveva suscitato nelle teorie di Giovannoni. Anzi, non è affatto da escludere quest’ultimo tra i possibili estensori del bando per Aprilia, al cui concorso partecipò in veste di commissario. Nel testo di una sua contemporanea conferenza sul tema della deurbanizzazione si leggono enunciati in modo più completo ed esplicito quegli stessi principî che qua e là traspaiono, nel bando, tra le istruzioni per i concorrenti.

Dopo aver studiato bene quello che si è fatto altrove, dobbiamo tornare a casa nostra ed operare col nostro bravo sentimento italiano.
E le nuove borgate dovranno essere tali da non alterare il carattere dell’ambiente, pur rispondendo a modernità ed a utilità pratica. Abbiano un nucleo di case compatte, pur non troppo alte, che contengano la piazza principale, raccolta e tranquilla come le piazze antiche, al di fuori del movimento di passaggio; poi la fabbricazione venga degradando in intensità verso l’esterno, adattandosi al terreno, creando armoniche associazioni di masse, ma non seguendo troppo rigidi sistemi; e se mai, le ispirazioni ne siano tipicamente locali, [...] ed in ogni modo la formula del buon senso e del buon gusto dovrebbe essere semplice semplice ma italiano italiano (11).

Ed era infatti questa l’immagine più aderente al ruolo che la città nuova doveva svolgere nell’intera bonifica negli intenti degli organizzatori. Essi erano profondamente convinti infatti che la colonizzazione stabile sarebbe probabilmente fallita se fosse mancato quel punto di riferimento urbano. Ai coloni dispersi e confinati nella campagna, costretti alle durissime fatiche per la sopravvivenza, la città nuova doveva servire proprio a ricordare che la civiltà nelle forme in cui l’avevano lasciata nelle vecchie terre era presente anche lì vicino a loro, e la civiltà cui facevano riferimento era inequivocabilmente di matrice urbana. Città era dunque un insieme di istituzioni entro cui s’inquadrava il rurale, ma era, anche, un’immagine. Per ricostruirla se ne ricercavano i simboli più efficaci estraendoli dalla più fiorente e significativa stagione urbana, quella della città-Stato comunale: i suoi indicatori verticali, torri e campanili, emergevano ancora meglio sulla piatta pianura e sulle basse case. Ricomposti e raggruppati attorno ad uno spazio centrale, delimitavano un vano raccolto come quello delle piazze antiche, la cui riscoperta, compiuta dal Sitte alla fine del secolo precedente, era destinata ad avere larga eco entro un clima di recupero della tradizione italiana.
Il tecnico, assente dalla fase di formulazione teorica e di programmazione, era chiamato a questo punto a plasmare queste forme, e la competenza che gli si chiedeva nell’operazione non andava al di là di quella di un architetto calligrafo. Questo spiega perché, secondo l’indice di gradimento dell’Ente costruttore, l’incarico per un piano di città nuova aveva potuto essere affidato anche a Oriolo Frezzotti, architetto diplomato all’Accademia di belle arti, o a Gustavo Pulitzer, raffinato architetto specializzato in arredamento d’interni.
Quando però i concorsi nazionali chiamavano a confrontarsi su uno stesso progetto un discreto numero di concorrenti, si poteva allora verificare quanto fossero incerte e contraddittorie nella cultura contemporanea le tendenze sul modo d’intendere e di fare urbanistica. Per quanto il tema fosse molto modesto e già rigidamente delimitato, è naturale che nell’impostarlo i tecnici vi riversassero la loro cultura sul problema città e sul come operare in essa.
Muzio, commentando l’esito del concorso per Aprilia (12), lamentava che di fronte a tale disparità di soluzioni i problemi sembravano ancor più in alto mare e per compiere un esame critico delle diverse proposte finiva per suddividerle in gruppi, adottando ancora una volta una chiave di lettura grafica: piani a schema semplice geometrico, a schema complesso lineare o radiale, mistilinei.
La distinzione tra forme aperte e chiuse d’altra parte era qualcosa che andava al di là di un puro gusto grafico: nel primo caso vi era riflessa la concezione di città come corpo accentrato, privilegiato nei confronti del territorio da cui lo separavano non cinte di mura, ma molto più artificiosamente viali di circonvallazione o anelli di verde alberato; nel secondo caso la città era concepita come un organismo dinamico, aperto verso i futuri ampliamenti e quasi proiettato nel territorio circostante con un rapporto paritetico. Dalle relazioni allegate ai progetti dei concorsi – progetti che sono peraltro quelli ritenuti degni di qualche premio e quindi conservati negli archivi dell’Onc –, si apprende meglio quali fossero i meccanismi attorno a cui veniva incardinato il funzionamento della città. Pochi ed elementari erano i problemi, gli stessi che avevano impegnato gli amministratori delle città nei secoli precedenti: viabilità ed igiene. Risolti questi, non restava che l’approccio puramente estetico-architettonico e 1’urbanista poteva finalmente ritornare architetto e cimentarsi, pur nella più stretta economia, nella composizione armonica di spazi e volumi, ben sapendo che in fondo sarebbero stati proprio i requisiti estetici a determinare il giudizio della commissione.
Valutandoli così, disegnati sulla carta nella loro piccola dimensione, i progetti per le città nuove sembrano quasi il frutto di un’esercitazione condotta sulla base di nozioni appena apprese alle lezioni della scuola d’architettura o tolte di peso dai pochi manuali in circolazione. La letteratura manualistica si stava diffondendo m Italia appena allora, e della più matura produzione tedesca ricalcava l’impostazione di fondo essenziamente tecnico-pratica (13). Gli interrogativi sugli obiettivi della disciplina o sulle motivazioni di certe scelte rimanevano inevasi, soffocati dalla amplissima casistica di esempi contemporanei ed antichi, destinati a fornire risposte immediate ad ogni problema operativo.
I punti di contatto tra i progetti e la cultura urbanistica dispensata dai manuali sono evidenziati dalle sottolineature stesse apposte dai tecnici alle relazioni e alle tavole grafiche. Consideriamo ad esempio il libro di Gustavo Giovannoni Vecchie città edilizia nuova apparso nel 1931 con stralci di scritti precedenti dell’autore. Strutturato secondo lo schema dei manuali d’oltralpe, esso è però inequivocabilmente destinato ad urbanisti italiani e la materia, anche nelle sue parti più strettamente tecniche, è svolta con un filo conduttore, che ne costituisce anche il limite: lo spirito di recupero ed esaltazione di tutta la tradizione nazionale, delle sue espressioni storico-artistiche e la volontà di polemica contro due culture massificanti per ragioni opposte, l’americana e la bolscevica.
Tra i molti suoi suggerimenti pratici Giovannoni raccomandava di cercare per l’abitato una posizione che fosse elevata altimetricamente, in modo da sfruttare al massimo i possibili effetti di movimento (14); ed i progettisti, trovandosi di fronte una pianura, rispondevano di avere utilizzato anche i minimi movimenti del terreno o di aver collocato il centro nel punto più alto in modo che la nuova città si profilasse dominante nel paesaggio.
Un corretto orientamento era ritenuto preliminare indispensabile al tracciato delle strade e dei blocchi edilizi (15). Era questo un tipo di problematica da tempo sollevata dagli igienisti nordici per assicurare la massima insolazione alle case e alle zone più interne dell’abitato stesso. Le soluzioni ottimali, già codificate dai manuali, venivano però ridiscusse dal momento che la regione mediterranea era assai più soleggiata; l’attenzione si spostava soprattutto sui venti dominanti, a cui doveva essere impedito di penetrare senza alcun ostacolo, d’infilata, attraverso le strade, fin nelle zone centrali.
Ed ecco che sulle tavole dei piani regolatori campeggiavano bussole a volte esageratamente grandi e dettagliate con le direzioni dei venti, e nelle relazioni si parlava diffusamente di quinte edilizie e di sbarramenti opposti alle principali correnti. Petrucci nel confutare le accuse mosse da Piacentini al suo progetto per Aprilia gli scriveva:

V.E. ha dimenticato istantaneamente che fino a ieri ha predicato nelle sue lezioni alla scuola di Architettura di evitare le strade Nord-Sud e Est-Ovest.
Oggi la moda d’oltralpe ritorna sugli schemi a scacchiera con quegli orientamenti. Ciò andrà bene per le regioni settentrionali dove cercano affannosamente il sole, nelle case, con le ampie finestre, nelle strade con la orientazione N.S. o quasi. Ma in Italia, Eccellenza, non si cammina per quelle strade senza correre il rischio di un’insolazione ed infatti V.E. raccomandava qualche anno fa di evitare quell’orientamento. Non se ne ricorda più? Ora sono cambiate le condizioni del clima o sono cambiate le sue opinioni? (16)

Ed è sempre a difesa del vento che Libera, incurante del ridicolo, giustificava la rettangolare cortina di cipressi che chiudeva tutto intorno l’elegantissimo geroglifico che costituiva il suo progetto per Aprilia.
Dopo l’orientazione la viabilità. Il principio ormai concordemente accettato era quello di una opportuna distinzione gerarchica tra diversi tipi di traffico esterni o interni all’abitato e tra diversi assi viari in cui essi venivano incanalati. Dall’esterno la città risultava imbrigliata in larghe maglie triangolari con gli opportuni svincoli; ed all’interno, secondo l’ormai classica soluzione di Sabaudia, la piazza centrale era leggermente defilata rispetto alle vie di penetrazione in modo da rimanere appartata e tranquilla. Ma il principio era stato frainteso; piuttosto che creare valide premesse per un allontanamento del traffico dal centro, se ne ostacolava la penetrazione torturando il tracciato stradale con incroci a baionetta ed artificiosi percorsi.
Risolti in fretta i problemi più strettamente tecnici, quali l’approvvigionamento idrico e la fognatura, la più grossa fetta della relazione era destinata a preoccupazioni estetiche. Nessuno dei dettagli da manuale veniva trascurato. Giovannoni sosteneva che la via rettilinea doveva essere ravvivata con la visuale monumentale o naturale del fondo, un grande edificio, un obelisco ovvero un monte o un bosco (17). E l’effetto panoramico era puntualmente ricercato nei pochi punti emergenti in quella piatta pianura. I monti sullo sfondo erano inquadrati da terrazze o slarghi panoramici, su cui era disegnato il cono di prospettiva; e la ricerca dei fondali di visuale al termine delle rettilinee vie di penetrazione era puntualmente segnalata: ora gli alti edifici delle chiese con i loro campanili svettanti come obelischi, ora le moli delle torri comunali e littorie ben riconoscibili fin da lontano come indicatori dell’abitato.
Naturalmente, in risposta alle richieste dei bandi, l’impegno per creare un ambiente piacevole da viversi era concentrato nella piazza, la cui soluzione sembrava monopolizzare in ogni modo la fantasia dei progettisti. La maggior varietà di disegni dei fabbricati che vi si affacciavano e le relativamente meno forti restrizioni in fatto di materiali invitavano a tentare un gioco di composizione, anche se il ventaglio di elementi utilizzabili rimaneva sempre molto limitato: così in quell’unico spazio quasi sempre articolato si contrapponevano masse e volumi, si accostavano materiali di colori diversi, si sottolineava la plastica dell’arredo architettonico; ed il passaggio porticato diveniva spesso l’elemento chiave per la sua doppia valenza di elemento di chiusura architettonica, ma di apertura spaziale verso quadri più ampi.
Quanto alle residenze, questo non appare nelle relazioni come un problema fondamentale o qualificante ai fini del concorso. Ne vengono genericamente indicati i tipi edilizi (generalmente tre: edifici a filo stradale, case a schiera, case isolate o binate disposte in gerarchia secondo la loro destinazione sociale) e si rimanda tutto direttamente alla fase esecutiva.
Questo tipo di zonizzazione, intesa come selezione degli spazi urbani e dei tipi edilizi, fu invece attuato in forma molto rigida nella città operaia di Carbonia, città dove l’estensione della residenza superava di molto la parte pubblica della città. Così la coesistenza pacifica delle diverse categorie sociali era assicurata dalla rigida separazione di zone abitate; ma, in compenso, proprio perché si trattava di una città dormitorio per gli addetti al primario, il problema della residenza era stato accuratamente studiato nelle due soluzioni che successivamente furono adottate; estensiva prima, intensiva poi, quando l’immigrazione massiccia minacciava di far dilatare troppo l’abitato.
Vale la pena di segnalare infine come la zonizzazione, intesa come suddivisione dello spazio urbano in aree destinate a funzioni diverse, compaia quasi in caricatura in uno schema riguardante Pontinia: nel quadrato della maglia di bonifica attorno ai piatti segni degli edifici centrali vennero segnate in punti opposti le indicazioni di «zona dei villini» e «zona industriale».
Mentre la maggior parte dei progetti erano stati stesi in adesione totale alle richieste della committenza, da parte di alcuni, fosse disattenzione o polemica, o disprezzo per gli orientamenti espressi nei bandi, erano state formulate proposte ispirate a modelli di ben diversa estrazione. I loro limiti e l’inadeguatezza delle soluzioni prospettate di fronte al problema reale erano forse anche più forti: ora la funzionalità era sacrificata ad un calligrafismo esasperato, ad un rigorismo geometrico che rivelava come il piano prima di tutto rimanesse un oggetto destinato alla pura contemplazione formale; ora si trasferivano alle borgate rurali schemi adatti piuttosto all’ampliamento di un quartiere urbano.
Ma oltre il sospetto, molto incriminante in quegli anni, di essere tributari a culture straniere, era proprio l’aver eluso le regole del gioco che escludeva immediatamente quei progetti dalla valutazione delle commissioni.
Questa mancanza di contatto con la committenza si verificò in modo ancora più netto nell’episodio del progetto per Pontinia firmato da Le Corbusier.
La vicenda si inserisce da un lato nella storia dei rapporti spesso a senso unico, tra Le Corbusier e committenza, dall’altro in quella dei rapporti tra Le Corbusier e la progettazione.
Pontinia e l’Agro come luogo di attuazione sono due variabili del tutto marginali rispetto al progetto stesso. L’abbozzo relativo a Pontinia non era infatti assolutamente originale, ma derivava da un altro precedentemente studiato per la regione agricola della Sarthe.
Durante il suo soggiorno romano, l’architetto aveva visitato la zona bonificata dove le prime due città erano ormai compiute. L’operazione gli era parsa di così vasta scala da ritenerla adeguata ad un proprio intervento.
Era questo il terzo spazio che individuava in Italia: dopo Marghera, città industriale, e Roma, la capitale, Pontinia rappresentava il modello di ricostruzione della campagna.
Da quel momento iniziava la ricerca di contatti con l’autorità, gestita dall’amico italiano Fiorini; e l’autorità non si identificava solamente in Mussolini, ma m qualche influente tramite nelle alte gerarchie individuato dapprima nella persona di Bottai, poi con molto maggiore scetticismo in quella di Ciano. Il colpo d’occhio aveva suggerito le prime impressioni negative sulla bonifica annotate sul taccuino e ripetute in forma più organica in “Prélude” (18). Di Littoria pensava tutto il male possibile: «confusion», «laideur», «échec urbanistique» erano le prime parole che appuntava a proposito; quanto alla «razionale» Sabaudia, le sue riserve sotto un certo profilo erano ancora più forti: villaggio gradevole e in parte riuscito, ma sogno romantico, rivisitazione di una poeticità agreste ormai fuori tempo. Ma soprattutto riteneva dannoso lo sviluppo previsto dal piano, con l’invasione di basse casette che avrebbero finito per saccheggiare irrimediabilmente il paesaggio. Quello che l’occhio vedeva e quello che avrebbe voluto vedere erano due realtà urbanistiche contrapposte quasi specularmente. Fondazioni, tetti, strade, ingressi, abitazioni, tutto ridotto dalla moltitudine all’unità.
Al di fuori del volume occupato dall’unità di abitazione, il paesaggio sarebbe rimasto intatto; e quella libertà che l’occhio aveva nello spaziare sull’orizzonte tra montagna, pianura e mare si sarebbe tradotta all’interno con la centralizzazione degli impianti in libertà dai servizi più pesanti, dal caldo e dal freddo, dalle mosche e zanzare delle paludi.
Punto immediatamente qualificante dell’intero progetto era proprio la soluzione del problema residenza; e già in questo la distanza dalle richieste della committenza era incolmabile.
Gli edifici pubblici, precisi come funzioni, avrebbero forse potuto essere pensati per le esigenze della burocrazia e del partito fascista e perfino utilizzati per effetti scenografici.
Di due punti centrali all’operazione fascista delle città di bonifica Le Corbusier dimostrava di aver recepito pienamente l’importanza: la rapidità e il costo.
Su questi, poteva dichiarare la sua proposta nettamente vincente, valutando un risparmio da tre a quattro volte, un tempo di costruzione di 50 giorni contro i 265 di Sabaudia.
Ma la condizione indispensabile era che i nuovi centri rurali venissero inseriti nell’ingranaggio della grande industria del Nord: la città razionalmente smontata dal progettista in blocchi di serie da affidare alla produzione industriale sarebbe poi stata montata direttamente sul luogo. Come al solito, nel subordinare l’autorità al progetto, Le Corbusier aveva imboccato un vicolo cieco.
La bonifica dell’Agro ed il recupero di terreni non erano parte di un puro e semplice programma di rinnovamento agricolo. La politica della deurbanizzazione cui erano collegati e la scelta della mezzadria come patto agrario bastano già a rivelare l’ideologia che vi era sottintesa e che stava elaborando in quegli anni la propria immagine architettonica e urbanistica.
L’avrebbe trovata, come si è visto, nella dimensione individuata da «Strapaese», facendo «rivivere la grande tradizione italiana attraverso il filtro quotidiano, ma non meschino della propria terra» (19).
Ogni singolo capitolo all’intemo di questa vicenda di fondazione è creato in questa scala ridotta, in questa misura modesta.
Ai contemporanei mancò la necessaria maturazione culturale per aprire un vero dibattito sul tema; ma lo stesso dibattito nel dopoguerra fu di fatto molto ritardato dalla mancanza d’interesse per quella modestia, apparentemente così poco qualificante, e dal fatto che non vi si poteva riconoscere né razionalismo né monumentalismo; poli antitetici in cui era d’obbligo inquadrare l’espressione urbanistico-architettonica del regime.
La ricerca di radici all’interno del regime da parte di una cultura che ostentava un retorico antifascismo portava ad un’operazione molto miope, al recupero delle minoranze emarginate e sconfitte e ad una loro rilettura in chiave antifascista.
Questo contribuì a prolungare per molto l’equivoco in cui quelle si erano mosse. Razionalismo e monumentalismo diventarono due ideologie di opposto segno politico; del primo si accettavano le opere, la letteratura, l’informazione.
Secondo i razionalisti la vicenda delle città nuove si ferma con Sabaudia, al momento della loro maggior fortuna che proprio allora, dopo aver toccato l’apice, inizierà la sua parabola discendente. Sabaudia rimase un nome, un simbolo di una battaglia che poi fu persa.
Eppure, a ben vedere, a parte l’organicità con cui il piano era stato steso, il progetto stesso non era esente da quei vizi di retorica ed in parte di monumentalismo che sulla piatta bidimensionalità della carta quasi scompaiono.
L’enfasi del complesso religioso, la dilatazione della piazza delle adunate, l’elevazione della torre: sono tutti elementi che denotano, in piena adesione alle richieste della committenza, un gigantismo della parte pubblica della città rispetto a quella privata.
Ma, filtrata dalla valutazione dei razionalisti, la vicenda rimase ancorata entro quei confini; e questo spiega come sia possibile che ancora nel 1964 il manuale del Benevolo fornisse sull’argomento questo giudizio critico: «I razionalisti tracciarono il piano di Sabaudia interrompendo la serie delle monumentali città di bonifica» (20).
Non poteva trattarsi di serie perché Sabaudia era la seconda città, se si esclude il piccolo nucleo, ancora in gestazione, di Mussolinia. Littoria era dunque l’unico precedente ed il suo monumentalismo poteva essere giudicato tale soltanto quando la piatta frontalità degli edifici pubblici venne a delimitare la piazza disegnata nel deserto senza alcun coordinamento di piano. Dato lo sviluppo della città, essi risultarono poi pienamente dimensionati alle funzioni che dovevano svolgere.
Tra quei due poli opposti, razionalismo e monumentalismo, esiste anche questa componente strapaesana che non può essere ignorata né sottovalutata. E se le città nuove ne rappresentarono il campo di piena e completa affermazione, la sua presenza è evidentissima in tutti i centri urbani, nei medio-piccoli più che nei grandi, in quella serie di interventi condotti in sordina, m tono minore, che con la costanza e la facilità di diffusione dei loro moduli espressivi formano, prima di ogni grande opera monumentale o d’avanguardia, i caratteri distintivi dell’immagine urbana del fascismo.

Note

(1) Per un esame più analitico di tutte le vicende che accompagnarono la fondazione delle città nuove e per i dati relativi alle città e la bibliografia generale sui problemi trattati rimando a quanto ho precedentemente scritto: Le città di strapaese, Franco Angeli, Milano 1981; Le città nuove del ventennio: da Mussolinia a Carbonia in Le città di fondazione, Marsilio-Ciscu, Venezia 1978; Le città dell’autarchia in “La Rivista”, 1978, n. 2-3; Città nuove in Sardegna durante il periodo fascista, in “Storia urbana”, 1978, n. 6 (in collaborazione con R. Martinelli).Su
(2) Lettera a Carlo Lodovico Ragghianti edita in G. Pagano, Architettura e città durante il fascismo, a cura di Cesare de Seta, Laterza, Bari 1976.Su
(3) II primo in Architettura nazionale, in “Casabella”, 1935, n. 85, pp. 2-7; il secondo in Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali, in “Costruzioni-Casabella”, 1941, n. 157, p. 2.Su
(4) Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Autografi 7.10.D.Su
(5) L. Piccinato, Il significato urbanistico di Sabaudia, in “Urbanistica”, 1934, n. 1, pp. 10-24.Su
(6) G. Ciocca, E. Rogers, La città corporativa, 1934, n. 10, p. 25; G. Ciocca, Per la città corporativa, 1934, n. 11, pp. 10-13: G.L. Banfi, L.B. di Belgioioso, Urbanistica anno XII. La città corporativa, 1934, n. 13, pp. 1-2; L.B. di Belgioioso, G.L. Banfi, Urbanistica corporativa, 1934, n. 16-17, p. 40; E. Peressutti, Urbanistica corporativa, piani regolatori, 1934, n. 20, pp. 1-2; Corsivo n. 169, 1935, n. 23, p. 44; G.L. Banfi, L.B. di Belgioioso, E. Peressutti, E. Rogers, Urbanistica corporativa, 1935, n. 23, p. 20.Su
(7) E. Persico, Punto ed a capo per l’architettura, in “Domus”, 1934.Su
(8) M. Piacentini, Aprilia, in “Architettura”, 1936, n. 5, pp. 193-212.Su
(9) Opera nazionale combattenti, Archivio storico, Verbale della riunione del 19 novembre 1935, Comune di Aprilia, 2 giugno 1922.Su
(10) G. Pagano, Architettura rurale in Italia, in “Casabella”, 1935, n. 96.Su
(11) G. Giovannoni, L’urbanistica e la deurbanizzazione, Roma 1936, pp. 17-18.Su
(12) G. Muzio, Concorso per il piano regolatore d’Aprilia, in “Rassegna d’architettura”, 1936, n. 14-15, pp. 206-15.Su
(13) Vedi sull’argomento G. Piccinato, La costruzione dell’Urbanistica, Officina, Roma 1974.Su
(14) G. Giovannoni, Vecchie città edilizia nuova, Utet, Torino 1931, p. 74.Su
(15) Ivi, p. 74.Su
(16) Opera nazionale combattenti, Archivio storico, Comune di Aprilia, 2 giugno 1922.Su
(17) G. Giovannoni, Vecchie città..., cit., p. 124.Su
(18) Gli schizzi sono pubblicati e commentati da G. Ciucci, A Roma con Bottai, in “Rassegna”, 1981, n. 3, pp. 66-71. I commenti di Le Corbusier furono espressi in “Prélude”, 1934, n. 14, e successivamente riportati anche in La ville radieuse, Parigi 1964, p. 329.Su
(19) Cfr. L. Mangoni, L’interventismo nella cultura, Laterza, Bari 1974, p. 137.Su
(20) L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Laterza, Bari 1964, voi. II, p. 760.Su

Da: “Bollettino del Dipartimento di urbanistica”, Iuav, 1986, n. 4, pp.147-165.

Illustrazioni (le foto sono dell’Autrice, Dipartimento di Storia delle Arti-Università degli Studi di Pisa). Su

Piano regolatore della Città di Carbonia. Schema di regolamento edilizio
Piano regolatore della Città di Carbonia. Zonizzazione
Carbonia, progetto del «posto di soggiorno e ristoro»
Studio G. Pagano, planimetria di Portoscuso Nuova
Littoria, Palazzo delle Poste, edifici in costruzione
S. Muratori, progetto per Costoghiana, particolare del plastico
Costruzione «rurale» dell’Agro
Littoria, Casa del Combattente in costruzione
Aprilia, progetto esecutivo, orientamento rispetto ai principali venti dominanti (architetti C. Petrucci e M. Tufaroli e ingegneri F. Paolini e R. Silenzi)
Torviscosa, torre del Palazzo Comunale